Che libro triste. E' un libro talmente triste e spietato che lo diventa persino troppo. La scrittura è particolare: dialoghi ristretti e mai virgolettati, riposti indistinti nel mezzo di frasi quasi a perdersi in esse e somigliare più a pensieri o considerazioni; metafore e perifrasi poetiche che si scontrano sempre con la dura e fredda crosta ghiacciata del mondo reale e che anche quando scendono nel cuore dell'uomo concludono col ferirlo. I paesaggi sono brutali: il mare assassino tanto quanto i monti e le tempeste, il sole un sadico imbroglione che funge quasi esclusivamente da tranello. Così incontriamo Bardur e il ragazzo e
Bardur subito muore nell'immoto disinteresse totale del mondo circostante e della poesia e della natura e dei suoi compagni di avventura. Tranquilli, non vi ho svelato nulla che non si intuisca già dalle prime righe del libro, quando Bardur e il ragazzo camminano per sentieri scoscesi; del resto è quasi ininfluente la sua sorte, come quella di tutti quanti gli esseri umani al cospetto del mondo spietato che questo libro traccia. E' duro e triste e, come dicevo, persino troppo tant'è che a volte si fa fatica a proseguire la lettura perché queste durezza e tristezza sono persino troppo bene evocate dalla particolare scrittura che crea evoluzioni linguistiche così ben fatto che ci si stringe il cuore e, pure in piena estate, pare di sentire il gelo dell'inverno islandese scenderci fino nelle ossa.
E' un libro immensamente spietato sia nei confronti dei protagonisti sia nei confronti del lettore.
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