Romanzo di uno scrittore nigeriano, esce dalle mie abitudini perché non ho mai affrontato prima la vera letteratura africana. Il Crollo è il primo capitolo della trilogia
Dove Batte la Pioggia, gli seguono i libri
Ormai a Disagio e per finire
La Freccia di Dio. Possiedo anche il libro di Achebe
Un Uomo del Popolo che viene generalmente considerato come prosecuzione della trilogia.
Il contenuto di questi libri si concentra sulla narrazione della vita di un gruppo di Ibo, e in generale dei Nigeriani, prima e dopo la colonizzazione. Questo libro è ambienta subito prima del colonialismo, probabilmente fine 800 o primi del 900, e si conclude con l'arrivo dell'uomo bianco e la sua religione, e in ciò consiste il "crollo" del titolo: crolla in un attimo tutta la struttura della società Ibo, la religione cristiana la scalfisce alla base, ne corrode letteralmente le fondamenta. Devasta le credenze, porta allo scoperto la falsità della magia, distrugge le abitudini e le culture, scompone le famiglie mettendo padri contro figli, tutto in nome di Gesù e dell'istruzione. Gli Ibo imparano la lettura e la scrittura e scoprono che esiste un mondo molto più grande ma al prezzo di dimenticare quando non disprezzare tutto il loro mondo precedente.
Può sembrare che ci siano dei momenti deboli: non sanno cos'è l'uomo bianco ma hanno fucili e munizioni, come può essere? Chiaramente sono stati tramandati e il ricordo dell'uomo bianco è diventato un mito o fuso con l'albinismo ma Achebe non è scemo, il fucile di Okonkwo è introdotto tacitamente come anticipazione del disastro bianco: la prima volta che il fucile appare quasi uccide sua moglie, mentre la seconda volta gli causa l'espulsione dal clan. Si dice che un'arma è solo un'arma, è chi la usa che permette di giudicarla; in questo libro non è così, il fucile è un oggetto malefico che porta sventura solo per il fatto di esistere, e il perché è chiaramente dovuto al suo essere una epifania della colonizzazione.
Cosa ci resta dell'esperienza narrata in questo libro? La triste storia del rapito Ikemefuna o l'agghiacciante intermezzo del pianto dei gemelli "gettati via", abbandonati dentro un vaso nel mezzo della foresta, buttati come i resti di una cena troppo abbondante, gelano il sangue. Ma dopo queste storie c'è sempre un "ma", anche se una frase non dovrebbe mai iniziare con una congiunzione (altrimenti cosa congiunge?) mi pare che in questo caso sia corretto. Ma. Punto. E' un "ma" che comincia a finisce perché ciò che ci resta non è proprio verbalizzabile, non è razionale perché ciò che ci resta più che un giudizio sulla colonizzazione e i suoi pro e i suoi contro è un sentimento di irreparabile perdita. Nonostante i teschi dei nemici uccisi e decapitati e dai quali Okonkwo beve vino di palma, nonostante la violenza sulle donne e i figli, i bambini gemelli gettati via, la mortalità infantile agghiacciante, Ikemefuna e la sua orribile morte, non si può non provare nostalgia per questo mondo che pare, nonostante tutte le sue atrocità, un mondo di fiaba. Achebe, ripeto, non è scemo: dei bambini gemelli usa più volte l'espressione "buttati via"; Okonkwo è un violento, un padre-padrone; si celebra la guerra e la giustizia sommaria; Obietika è una eccezione ma allo stesso tempo Achebe ne fa risultare la saggezza quasi come una anomalia; allo stesso tempo mostra chiaramente come i bianchi e il cristianesimo portino più parità tra gli uomini, diano più dignità alle donne, le loro leggi siano più regolari e per questo eque, e finalmente quei poveri gemelli vengano salvati dal loro terribile destino. Eppure sentiamo che c'è qualcosa che non va, e lo sentiamo come quando leggiamo una fiaba di tempi lontani. Del resto, una fiaba sembra tutta la narrazione di Achebe, con quel suo procedere asettico e svelto, con i suoi tempi regolati dalle attività stagionali e dalle riunioni del clan, sempre senza alcun giudizio, sempre senza alcuna obiezione, si limita a mostrarci una cosa che, giusta o sbagliata non importa, prima c'era e poi è stato scelto che non doveva esserci più. Poi si sa, a parlare dopo e attraverso un romanzo si può dare alla realtà l'interpretazione che si vuole...
Per concludere, una parola sola per giudicare questo libretto:
meraviglioso quanto triste. L'ho divorato dalla prima all'ultima lettera quando all'inizio l'avevo iniziato titubante e mi ero già demoralizzato con l'enorme pomposa introduzione che, al solito, dopo quattro o cinque pagine ho deciso di saltare. Achebe ha fatto un miracolo: ha scelto la storia giusta, ambientandola nel periodo giusto, narrando i fatti giusti con i protagonisti giusti, usando lo stile giusto. Peccato solo la chiusura con la citazione di una biografia reale della colonizzazione, inserita per critica, ma che spezza l'atmosfera fiabesca tragica che fino all'ultima riga è stata immacolata.
Un approfondimento ai temi del libro
lo trovate qui - C'è da dire che, come al solito, questa è una sola campana mentre andrebbero sentite sempre quelle di tutti i campanili. Sull'arrivo dell'uomo bianco, ad esempio, c'è una visione completamente differente nel libro
Schiava di Nazer Mende (si legga, per esempio,
questa citazione, nonostante il paradigma sia differente perché in Achebe si parla di "colonialismo"). Si può pensare che a quei popoli abbiamo portato la scienza medica, l'istruzione, abbiamo salvato i gemelli e gli Ikemefuna del caso, ma nulla è così essenzialmente
qualitativo da poter definire una cultura come
migliore di un'altra. Nulla toglie che una civiltà possa vivere, sopravvivere, perseverare nella storia evolutiva del pianeta restando con gli utensili di pietra come ho già evidenziato
in questa riflessione del mio blog.
Essendo culture cancellate dall'esistenza, non potremo mai sapere cosa abbiamo perso per sempre. Noi, ma soprattutto loro.
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