ven 18/10/2024 | RSS | Menu

LA BANALITÀ DEL MALE. EICHMANN A GERUSALEMME

Hannah Arendt

Da troppi anni rimandavo questa lettura, un po' perché troppo inflazionata a livello informativo, un po' per paura di delusione, un po' perché ai tempi dell'università affrontai il suo tomo sul totalitarismo e non mi piacque per nulla il suo stile; stile che, anticipo, non mi piace molto neanche ora, mischiando lo stile giornalistico investigativo con quello storico in una scrittura un po' labirintica. E' anche un libro datato a livello di "verità sul nazismo" per quanto valore di verità possa avere questa "verità": molte cose sono in seguito state scoperte (vedi il caso della morte di Bormann), altre ridimensionate, altre amplificate e un esempio è l'istituzione dello Judenrat e il suo eventuale livello di "collaborazionismo": erano sicuramente figli del regime, ma quanto attivamente collaborarono alla Soluzione Finale, quanto direttamente, quanto coscientemente? E' difficile inquadrare questa situazione parlando di un popolo che era comunque estraneo alla sua nazione ospite sia culturalmente, sia etnicamente, sia socialmente; oltretutto da molto l'esperienza aveva insegnato agli ebrei che qualsiasi problema ci fosse in una nazione/società, loro sarebbe stati messi in mezzo, che fare in questi casi? Se ti frusto 10 volte, alla 11esima hai la stessa forza d'animo di protestare che avevi alla prima? Senza considerare che se da un lato a capo dello Judenrat veniva spesso messo un gruppo elitario della comunità ebraica e selezionato, quindi anche persone bieche che vi ritrovavano un utile, nonché il fatto che la scelta che avevano non era ampia: o entravano nel consiglio, o in un fossa, chi già lì chi successivamente in un campo di concentramento. Infine, non si può dare un giudizio unico riguardo tutte le varie realtà, alcune furono sicuramente collaborazioniste altre invece collaborarono con le resistenze locali, quando esistevano, altre cercavano di migliorare la situazione delle comunità ebraiche ove si sapeva che non c'era via di salvezza dai treni.
Comunque rimandare ancora la lettura di questo libro era per me assurdo, personalmente considero giusto l'aver rapito e processato e ammazzato Eichmann, qualunque validità si potesse dare a quel processo. L'ho dunque acquistato cartaceo (a casa dei miei c'è sicuramente) ma i caratteri Feltrinelli erano troppo piccoli quindi mi sono poco dopo migrato alla versione ebook che consiglio senza ombra di dubbio per avere sottomano Google e Wikipedia, indispensabili per cercare informazioni su termini e nomi presenti nel testo ma senza note.
Nel primo capitolo parlando della corte e dei propositi di Ben Gurion (verso cui pare anche critica) la Arendt ci apre a una realtà tanto ovvia quanto poco nota: quanti nazisti si sono salvati pur senza nascondersi, quanto nazista era TUTTA la Germania durante la guerra, quanto lo è rimasta dopo con Adenauer. Il nazismo è stata la naturale evoluzione della cultura germanica (ed europea) di allora (solo di allora?), non è assolutamente stata una aberrazione e una cultura non la abbatti in un momento ma devi solo lavorare continuamente per contenerla, correggerla, sperando che cambi. Questo è all'incirca ciò che sarà il resto del libro: a partire dalle memorie di Eichmann e delle testimonianze, a partire dalle ricostruzioni della sua carriera e del nazismo, Arendt ricostruisce dalla sua storia quella della Germania dall'emergere del nazismo fino al dopoguerra, narrando anche una storia causale-cronologica-ideologica-metodologica del processo di sterminio degli ebrei, per ottenere lo "judenrein" (pulizia dagli ebrei) e lo "junderfrei" (libertà dagli ebrei). Allo stesso tempo, tuttavia, l'occasione viene sfruttata per riflettere sulla natura stessa del processo in atto nonché delle possibilità e legittimità di processi di questa natura: è classificabile come "giusto"? E' un processo che è stato deciso dall'inizio? Come si pone questo processo nei confronti del nuovo stato ebraico, ne è legittimato o serve a legittimarlo? E' giustizia o vendetta? E' una ricerca di verità o un monito?
Troppo spesso ho visto questo libro recensito come saggio di stampo filosofico sulla natura del male, ma di filosofico qui non c'è nulla. Arendt è una inviata e classificabile come giornalista ma (sottolineo: "ma", per mettere una demarcazione tra ciò che dovrebbe essere un giornalista e ciò che invece perlopiù è il giornalista oggi e, chissà, probabilmente anche ieri) dotta, informata, acculturata e storicamente formata e per quanto riguarda questa vicenda anche interessata; a partire dal processo ad Eichmann elabora uno scritto che è in parte cronistoria del processo, biografia del personaggio, sguardo al periodo storico sia in questione nel processo sia contemporaneo del processo. Come è potuto accadere ciò che è successo in Germania? Chi erano i nazisti, cosa li muoveva e che rapporto c'era tra loro e la "popolazione civile" (concetto che a mio avviso, ieri e ancora più oggi, andrebbe abbandonato)? Eichmann è sincero? Più importante ancora: su cosa si fonda la sua eventuale sincerità? Che ne è stato di quelle ideologie (nazismo, antisemitismo, arianesimo, germanismo, ma anche sionismo, europeismo, ecc.) dopo la fine di Hitler? Cos'è la Germania del dopoguerra? Cos'è Israele? Tutte queste domande sono presenti, ci sono abbozzi e interpretazioni di risposta (se mai una risposta è possibile), ma di certo non sotto una visione o trattazione filosofica, bensì reportistica e storica. Non è un libro di filosofia, non è un'indagine filosofica sul male. È un libro storico di carattere giornalistico che a partire dalla questione Eichmann a Gerusalemme narra la storia della "liquidazione del problema ebraico" in Europa.
Arendt fa emergere che nel processo ad Adolf Eichmann di giustizia c'è poco: non c'è dubbio, se parliamo di giustizia giuridica. Lo penso anche io, il processo ebbe l'utilità o meglio lo scopo di attestare che Israele era uno stato per gli ebrei che non erano più da considerarsi (e non dovevano più considerarsi) un popolo ospite di altri popoli ma un popolo che ora aveva una casa; che la diaspora poteva finire; che i nazisti sopravvissuti sarebbero stati ricercati. Si poteva anche prendere Eichmann e ammazzarlo e chiuso; io avrei fatto così, ma Arendt fa notare che si poté invece così dare una dimostrare al resto del mondo. Il processo era anche un monito ai paesi arabi, collaborazionisti del Nazismo e a quel tempo pericolosi come il Nazismo per il neonato Israele: a Gerusalemme era (e altro ancora) attivo Amin al-Husseini - leggerne la biografia è tutto un dire... -, l'Egitto si era persino lamentato che i nazisti non avessero mai bombardato gli ebrei in Palestina, la Siria non parliamone che ospitò pure il macellaio Alois Brunner dopo la guerra assumendolo nel governo, l'Afghanistan, l'Iran, l'Iraq erano tutti stati dalla parte dei nazisti e molti fuggirono in o per quegli stati salvandosi nel dopoguerra.
Arendt è lucida e ferma nel mostrare le colpe di tutti, nel sottolineare e far emergere bene il collaborazionismo ebraico, nell'evidenziare come il nazismo nei suoi scopi antisemiti fosse semplicemente l'applicazione di una cultura da tempo diffusa in Germania e nell'Europa del tempo. Il Nazismo e l'olocausto (non solo di ebrei, di deficienti, zingari ecc.) è stato una naturale evoluzione, non un'aberrazione.
Personalmente fosse ancora tra noi farei leggere questo libro a W.G. Sebald, quando nel suo Storia Naturale Della Distruzione chiede il perché dei bombardamenti degli alleati sulle città: la risposta è che sono stati un "troppo" se si traccia una linea definita tra nazisti da una parte e civili dall'altra ma, come emerso durante il processo ad Eichmann, questa linea non c'è, tutti i tedeschi sono stati complici (e non solo loro ovviamente), non c'erano "civili" e i non-complici sono stato ben pochi. Il nazismo è come un colore che ha ricoperto tutto quel popolo, era la sua cultura, ove più ove meno; è un colore che aveva solo leggere differenze di saturazione. Che quei bombardamenti fossero ormai inutili perché la guerra era ormai vinta non c'è dubbio, che quei bombardamenti avessero invece colpito inermi innocenti è una tesi che non sta in piedi.
C'è anche un'altra cosa da dire (da dire anche a W.G.Sebald, persona che ha scritto un grazioso libro completamente fuori luogo e che avrebbe dovuto applicare a se stesso invece la proposizione 7 del Tractatus): la cosa più sconcertante, più inquietante, più irritante e più snervante che ricaverete da questo libro è la lista di persone che se la sono cavata. Io l'ho letto in ebook perché il libro aveva i caratteri veramente piccoli e con l'ebook ho perso tanto tempo a cercare nomi su Wikipedia, e di tanti, tantissimi, e per quanti siano di troppi ho letto che nulla gli è accaduto. Chi salvato da Adenauer, chi da paesi arabi, chi semplicemente perché nessuno si prese la briga di fargli nulla, ma la lista è immensa e buona parte di queste persone sono state artefici della Germania del dopoguerra, chi direttamente in ruoli chiave della politica o della magistratura, chi indirettamente in campo industriale. Guardando anche quanto l'ideologia antisemita (antiebraica, impariamo che i "semiti" non sono solo gli ebrei) abbia attecchito resistendo fortemente tuttora, si può dire con ragione che Hitler avrà anche perso, ma il Nazismo ha in parte vinto. Trasfigurandosi, mimetizzandosi, cambiando e adattandosi, ma indubbiamente il suo germe ha messo radici dappertutto.
Per il resto come dicevo all'inizio la scrittura è un po' complessa, Arendt scrive in uno stile simile a quello dell'inchiesta giornalistica ovvero arzigogolato e pieno di parentesi e digressioni, con molte riepilogazioni o citazioni storiche e critiche da opere di altri autori. Si legge a mio avviso a fatica ma il giudizio è indubbiamente personale poiché è uno stile narrativo che non apprezzo molto. Sicuramente necessita di pause per consultare un'enciclopedia per quanto riguarda persone, luoghi, avvenimenti o termine privi di qualsiasi nota chiarificatrice. La Arendt fievolmente ma continuamente ha un tono critico su molte sfaccettature di questo processo, perlopiù dal punto di vista metodologico quando comunque non personale nei confronti dei giudici, ma di questo ho già parlato.
Un dubbio mi è rimasto: cosa voleva la Arendt? Un processo giusto? Eichmann condannato a x anni di prigione? O rilasciato? Sfugge il suo punto di vista continuamente evocato da critiche avanzate quasi come "battutine" ma senza una sua chiarificazione finale. Rimane nonostante ciò un libro da leggere. Da leggere bene, approfondire, capire, tant'è la brutalità che emerge dal ritratto della Soluzione Finale nazista qui grande protagonista che possiamo scoprire non soli nei fatti, ma anche nel metodo e forse quest'ultimo poco noto ma ancora più brutale. Tuttavia non un libro "corretto": non è imparziale, non è prettamente storico, è pregiudiziale e mirato e avvelenato da un punto di vista dell'autrice presentato da un lato quasi ovvio fondato su un presunto principio etico dall'altro piuttosto confuso. In teoria nell'ultimo capitolo riguardante le critiche successivo alla pubblicazione del suo libro la Arendt chiarisce il suo punto, o meglio vorrebbe farlo: ne risulta invece un monologo difficile da seguire e prolisso, retorico, arzigogolato per non dire labirintico (in sostanza, non si capisce un cazzo e a mio avviso non ci capisce un cazzo neanche lei).
Arendt ha fede nel linguaggio senza accorgersi che il linguaggio dice ciò che noi vogliamo dire; nel capitolo epilogo questa fede è la protagonista ma non si rende conto che se tutto fosse linguisticamente chiaramente definibile avremmo risolto tutti i problemi del mondo. Invece non si rende conto che quella del linguaggio è la stessa logica che crea universi fittizi perfettamente coerenti e che è lo stesso principio che ha permesso la teorizzazione del nazismo come weltanschauung e della soluzione finale come "soluzione". Un esempio è quando dice che essendo lo sterminio ebraico un crimine contro l'umanità, doveva essere giudicato da tutte le nazioni: a livello linguistico senza perfetto come le tabelle di verità della logica formale binaria ma il problema è quali nazioni? Anche la Germania di Adenauer che critica? Anche l'argentina che ha nascosto i gerarchi sopravvissuti? Anche i paesi arabi animati dallo stesso odio fondato pure religiosamente che ha concepito i nazisti? Anche la Romania che lei disse che era più antisemita della Germania stessa? E non è finita: le nazioni del dopoguerra essendo successive al fatto sono conformi? È un circolo senza fine per contraddittorio e ricorsivo è tutto il linguaggio come ormai filosofi e linguisti già a quel tempo avevano chiarificato. Un tribunale è figlio della sua nazione con il suo apparato legislativo: sotto questo aspetto i tribunali nazisti furono coerenti, come ci si può fidare di un sistema legislativo che nella Arendt pare invece così semplice, chiaro, nonostante il pessimo curriculum della Germania di Adenauer come lei stessa attesta (ma anche di altri paesi che non fecero sufficiente giustizia dei suoi carnefici). Con questa logica, inoltre, nessun nazista, non solo Eichmann, poteva essere giudicato! Se la Shoah fu un crimine contro l'umanità ovvero contro l'ordine dell'umanità e quindi non poteva essere giudicato dal tribunale del popolo che più lo subì non bisogna dimenticare che un bel pezzo di questa umanità è colui che quel crimine decise e attuò, quindi non è così "semplice", come dice la Arendt, decidere chi avrebbe dovuto giudicarlo. La sua logica è incredibilmente ingenua quando non infantile. Pare quasi che la "banalità" di cui parla sia dovuta al fatto che Eichmann non fosse il male ma la sua parte "banale" generata dal lavoro in rispetto della legge; Eichmann non era pazzo, non era cattivo, è stato solo ligio al suo lavoro come dice la stessa Arendt, ovvero (e questo non lo dice) tutto il sistema nazista è stato perfettamente coerente con se stesso, a suo modo dunque e nel suo perimetro sicuramente "legale", come dunque poter giustificare la "legalità" formale di un tribunale se può poi dar vita a tali risultati?
Su Wikipedia si può trovare un'interessante sezione critica alla posizione della Arendt fondata sul suo supposto ma anche attestato disprezzo degli ostjuden, gli ebrei dell'Europa orientale, pregiudizio che molti ebrei tedeschi avevano e che rimanda al pregiudizio dei cittadini nei confronti dei contadini, dei nobili nei confronti della plebe, pregiudizio che avevo imparato a conoscere leggendo il bel libro Vendetta di George Jonas che spiega molto della nascita di Israele e dello scontro tra queste due fazioni ebraiche.
E' un libro insomma incredibilmente viziato dal punto di vista della Arendt dove tutto è chiaro e logico, difeso da una retorica che fa acqua da tutte le parti. Arendt parla come se avesse già le risposte a tutte le domande, le soluzioni a tutti i problemi, ma da questo atteggiamento io ho sempre la certezza che bisogna stare lontani. Leggere quelle pagine e valutarle all'oggi fa capire che la questione non è così semplice. Non fosse per le reali vicende storiche narrate nel libro (nazismo, olocausto, processo) e questo ne fosse solo una dissertazione critica, a mio avviso non varrebbe la pena.
Sappiate che l'ultimo capitolo è di una pesantezza mortale.

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