Come al solito, saltate pure a piè pari l'introduzione. Se volete leggetevela alla fine, ma fare subito il passo ed entrate in questo maestoso piccolo mondo antico. La Luna e i Falò ricorda molto Faulkner, quello della Grande Foresta, ma la nostalgia che qui traspare è una nostalgia differente: oltre ad essere anche nostalgia di se stesso, dell'essere un
bastardo, è una nostalgia molto più "italiana". Non c'è la grande epopea americana erede dei trapper e delle carovane, ma c'è il silenzio della vita contadina. La luna e i falò: la luna è quella che Nuto crede inderogabile da seguire nelle sue mutazioni per potare le viti, fare il vino, concimare e seminare; i falò sono quelli che la tradizione accendeva per scacciare il male dalla terra e preservarla per avere buoni raccolti. Sono due paradigmi di tradizione magica, che però Anguilla rifiuta, in cui non crede e deride perché, se è vero che l'immagine del divino discende dal fatto che tutti abbiamo un padre, Anguilla non ce l'ha e quindi non ha la certezza di una dimensione ultraterrena. Da cui il suo smarrimento, il suo peregrinare continuo, il suo essere un paria senza patria e senza terra sotto i piedi.
La luna è anche quella delle feste campagnole, delle fughe di Silvia, e il falò è anche quello di Cinto e di Santa. È un gioco di specchi dove la luna è protettrice e nefasta strega, dove il falò protegge i raccolti e brucia le persone, i fascisti sono i cattivi ma a volte i martiri e i partigiani i comunisti o i liberatori ma pure i carnefici.
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