Leggere questo libro dopo il linguisticamente pesante
La Signora Dalloway della Woolf è come fare un bagno in un torrente montano dopo una camminata sotto l'afa estiva: Lawrence usa il linguaggio non come arte fine a stessa e autocelebrazione della scrittura, ma come un mezzo accettato nella sua potenza per lo svolgimento di una storia. Il suo stile conciso e preciso, tagliente come un bisturi, mi ricorda le magnifiche cesellature apparentemente piatte utilizzate da Hemingway: in poche parole riesce a svolgere il tessuto, a mostrare la trama in cui si muove la storia. Impressionante. A tratti può risultare noioso ma Lawrence riesce, con un'apparente semplicismo, a rappresentare lo sconforto della donna soggiogata dalla maschilista e pudica società inglese, dal senso di eccessiva positività del dopoguerra, dall'oppressione della cultura sociale a classi sociali (Mellors e la Bolton), e dal dramma psicologico interiore della paraplegia sia per chi la subisce direttamente (Clifford) sia indirettamente (Connie). Il guardiacaccia, con la sua incredibile sensibilità e cultura ma rinchiuso nella sua solitudine brutale e di stampo millitare quando non ancestrale, diventa un contro-eroe difficile da dimenticare. A tratti ci si annoia un po' perché alcune parti sono un po' troppo tirate in pensieri di Connie su se stessa e la vita in genere, ma accettavo che era un problema
mio e non di Lawrence, mio perché leggo in piccoli momenti liberi che mi creo artificialmente mentre questo libro meriterebbe una lettura approfondita e concentrata senza un orario di termine lettura. Fa impressione, molta impressione, pensare che questo romanzo fu pubblicato per la prima volta qui in Italiana nel 1928, ormai un secolo pieno fa: Lawrence ha avuto un coraggio immane nel farlo, un coraggio che noi ormai non possiamo più capire a pensare che alcuni momenti sono scandalosi tuttora. Quando Mellors
prende Connie in mezzo al bosco stendendola per terra sopra al suo giaccone e subito dopo lei torna a casa e comincia a cucire un vestitino da bambina mentre Clifford le legge Racine, giuro che avevo la pelle d'oca.
Ma tutto è uno specchio, un gioco di rappresentazioni, perché in realtà il vero unico protagonista di questo romanzo è un altro: l'Inghilterra. La società inglese, la cultura vittoriana, l'impero, la identità anglosassone, la vittoriosa in Guerra, la potente intercontinentale, la rivoluzionaria industriale. È qui che si gioca tutto e, sotto questo aspetto, questo che leggiamo è principalmente un romanzo storico.
Peccato per il finale, svolto a mio avviso piuttosto male e con l'artificio di definirlo solo con una lettera di Mellors mirata a definire gli ideali alla base del romanzo, lo lascia pure tronco che è quasi incompiuto. Certo, si capisce che il senso di ciò è che alla fine vince Il Costume, la Società, però lascia delusi.
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