gio 21/11/2024 | RSS | Menu

DESERT SOLITAIRE. UNA STAGIONE NELLA NATURA SELVAGGIA

Edward Abbey

Non sono un amante o estimatore degli ecologisti. Adoro la natura, vorrei un mondo fatto di strade bianche, animali selvatici, privo di telefoni. Sono contro la proliferazione di dighe e centrali elettriche, sono contro la diffusione dell'urbanizzazione, sono contro un sacco di cose cui sono contro anche gli ecologisti, ma sono conscio che tutto ciò semplicemente non è possibile. Come si sarà già visto col libro di Roger Deakin non mi piacciono molto questi discorsi anche perché di solito sono fatti da persone che semplicemente partono dicendo "Io ho ragione, voi torto, e siete dei bastardi". Il libro di Roger Deakin "Un anno a Walnut Tree" però era anche un libro di merda. Questo libro di Edward Abbey è tutta un'altra cosa: qui c'è veramente la natura selvaggia. Non c'è la finzione di Deakin, la natura selvaggia ma le rose potate e curate, la stufa a legna e il tablet, la difesa della camminata a piedi e la sua Audi... Deakin è il solito fighetto alternativo inglese; qui abbiamo invece il rude cowboy americano. Qui non abbiamo un giardino di casa, abbiamo un intero, mastodontico, enorme parco nazionale americano. La sua roulotte è una casetta mobile lontana da tutto, che per raggiungerla devi avere un fuoristrada e macinarti un bel po' di km di sterrato e guadare un fiume. Nonostante il discorso ecologista che porta avanti non lo appoggio per gli stessi motivi di cui sopra (io lo reputo un'utopia, lui una meta realistica), il libro è veramente bello, ben scritto, scorrevole, dove ai discorsi propagandistici viene lasciato comunque non troppo spazio a favore di descrizioni di camminate, trekking, viaggi in barca di giorni nel Colorado con la città più vicina a circa 150km, qui c'è la solitudine, il silenzio del deserto, gli animali, le rocce, e questo magnifico ambiente è descritto magistralmente. Il capitolo sul suo viaggio in gommone all'interno del Glen Canyon, ad esempio, è assolutamente meraviglioso. Nonostante tutte le teorie, comunque, Abbey sa che non si può tornare indietro: quello che vuole, probabilmente, è essere dalla parte opposta per rallentare semplicemente il sistema. Che ormai la "civiltà" sia obbligatoria, che la città sia un "bisogno", è ormai un dato di fatto: ma che la natura, da qualche parte esista, è una cosa che deve esserci e noi abbiamo sapere che ci sono ancora posti dove la natura è selvaggia e può schiacciarci, alfine di poterci far sognare in maniera anche romanticheggiante, volendo, di poterci vivere in sintonia. E' la coscienza che c'è un luogo in cui magari un giorno andremo, un rifugio dove potremo andare per salvarci da qualcosa: "Si può amare e difendere la natura anche senza avere mai lasciato i confini di asfalto, linee elettriche e superfici ad angolo retto. Abbiamo bisogno della natura, che ci abbiamo messo piede oppure no. Abbiamo bisogno di un rifugio, anche se potremmo non andarci mai. Abbiamo bisogno di una vita di fuga quanto abbiamo bisogno della speranza; altrimenti la vita nelle città spingerebbe tutti gli uomini verso il crimine, le droghe o la psicoanalisi."
Ciò che comunque mi è piaciuto di questo libro, e che ne forma il tema principale dal quale partono tutte le sue considerazioni, è che è un magnifico e passionale canto d'amore al deserto.

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