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Libia in moto: Iniziazione al deserto su Honda Transalp


Bostro in Libia nel deserto del Murzuk ed Ubari, nonché nell'Acacus, con la sua fida Honda Transalp.
SONO PASSATI 5822 GIORNI DALLA PARTENZA, DIO BOE!
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Bostro-X Fiky Jo Mario Mighe

Taccuino di Viaggio Libia 2008

PERCORSO EFFETTUATO NEL DESERTO

Tratto da http://www.avventureoffroad.it/
1° giorno: partenza da Germa, ingresso nel Messak nel uadi Berguig sino ad arrivare a uadi Methandous. Visita ai graffiti e notte nello uadi.
2° giorno: dal uadi Methandous, attraverso lo uadi Tiksatine, arrivo a pernottare nello uadi In Accamd.
3° giorno: uscita dal Messak e ingresso nell'Akakus attraverso l'uadi Fazzigiaren. Notte all'arco Fazzigiaren.
4° giorno: ingresso nel uadi Afah, poi uadi In Amilal fino al pozzo Emeneneh. Visita a pitture rupestri attraversando lo uadi Tiscenat, lo uadi Infardan, lo uadi Unammel fino all'arco Tin Haliga. Poi attraversando gli uadi Tin Lalan e Taurert, ancora pitture rupestri sino ad arrivare a fare campo all'arco Egahar Melan.
5° giorno: Sempre nell'Akakus, lungo il uadi Egahar Melan raggiunte le pitture e i graffiti nel uadi Awiss e nel uadi Tiedin. Passato l'arco Awiss, percorrendo lo uadi Adad, uscita dall'Akakus e ingresso nell'Awbari.
6° giorno: percorso l'Awbari direzione est verso i laghi, notte tra le dune a circa 40 km dai laghi.
7° giorno: arrivo al lago Mahfu, poi lago Gabroun e infine lago di Um el-Ma. Ritorno a Germa.

Giovedì 08/12/2008

Ho fatto un po' di mucchietti per terra, dei miei bagagli; poi dovrò fare dei pacchi in sacchetti di plastica chiusi per bene per farli stagni e provare a farli stare nelle valigie in alluminio che nuove nuove monterò sulla Transalp e proverò per la prima volta. Ma perché non ho mai il potere della sintesi, e mi ritrovo sempre con così tanta roba che neppure in un'auto mi starebbe? E poi continuo a chiedermi gli altri cosa porteranno. Anche loro se lo chiedono? Io sono da sempre impreparato al confronto con gli altri.
Mi sento come se dovessi partire per un'avventura nell'ignoto, in un territorio inesplorato, pieno di pericoli, forse no, comunque d'incognite; non è ovviamente così, passerò per piste e percorsi calcati di continuo da anni, accompagnato da guida esperte che ogni mese portano ebeti come me in giro per il deserto. L'unico lato positivo del terrorismo internazionale lo scopro ora, è che lascia una porta (tragicamente) aperta ad un tipo di viaggio che ormai non è più avventuroso. E' l'unico spiraglio di mistero in questi luoghi ormai mete turistiche consolidate.
Timore, tensione, per me, la moto, le mie capacità di guida, la responsabilità nei confronti degli altri, mi distruggono. Non mi sento per niente pronto, per niente in grado.
In questo stato d'animo mi accingo a partire per il mio primo viaggio nel deserto del Sahara, luogo ricco di simbolismo per l'essere umano, ancora di più per chi, come me, è profondamente immerso nella cultura occidentale, e ne è comunque profondamente insoddisfatto.

Venerdì 12/12/2008

Ieri sera ho dimezzato i bagagli. Mi sono ritrovato con così tanta roba che non mi sarebbe bastata, al solito, un’automobile. Una delle cose che ho sostituito per avere meno volume di bagaglio è il sacco a pelo invernale, soppiantato da quello primaverile; scelta veramente idiota ed ingiustificata che rimpiangerò ogni notte trascorsa in tenda nel deserto.
Ricambi eccessivi lasciati perdere, ridotti mutande, calzetti e le magliette; maledico il momento in cui, chiamato Mighe, mi aveva detto che lui aveva uno zainetto ed una sacca. Cosa tra l’altro non propriamente vera, ma che al solito mi fa sentire “Sempre quello coi bagagli in più”. Ho la giustificazione che ogni mia maglia è grande il doppio rispetto a quella degli altri, causa abbondante combinazione di altezza e larghezza, ma è una palliativo poco valido ai miei timori.
Alla fine comunque ce l'avevo fatta a caricare tutto, e nella notte, fumando una sigaretta, mi sono fermato qualche minuto ad ammirare la moto carica nel sottoportico.

Come se non bastasse, al mattino scopro che non ho pensato al fatto che nella sacca trasportabile a mano devo tenere la roba che mi servirà in nave, restando le valigie montate sulla moto, inaccessibile durante il viaggio; e così riscarico e ricarico il tutto, ritardando la partenza.
Accendo la moto, ché si riscaldi un po’, e nel frattempo indosso i sotto vestiti termici, i calzettoni in lana, i mimetici, il maglione in lana, il giubbotto imbottito, gli stivali da enduro (troppo voluminoso il 47 di piede da poter essere caricato come bagaglio!), metto l'antipioggia, anche sugli stivali, e mani infilate nelle moffole fai-da-me-rda me ne parto solo soletto sotto un gran diluvio, destinazione Autogrill a Verona Est dove dovrò incontrarmi con Fiky. Un incidente poco dopo la partenza, nonché il solito traffico fino a Mestre, mi fanno fare ancora più tardi.
Ma finalmente succede qualcosa di positivo: arrivato al casello, il casellante non c’è e sul vetro c’è scritto “Sciopero”. Alla mia sinistra però il casellante c’è, e quando gli chiedo spiegazione mi risponde “Io sono di un altro sindacato”. Per la prima volta (e poche ore dopo riaccadrà) ringrazio la CGIL! Senza pagare inforco la tangenziale ancora sotto una pioggia torrenziale.
Rientro in sardostrada e mi fermo un attimo per mandare un SMS a Fiky ed avvisarlo del ritardo, quindi con il diluvio un po’ diminuito risalgo in moto mentre alcune persone mi guardano scuotendo la testa lentamente.
Finalmente arrivo a Verona, parcheggio la moto, e mentre mi guardo attorno accendendo una sigaretta e mollando un po’ l’antipioggia mi raggiunge Fiky, che è arrivato fin lì in furgone con suo padre.
Mentre parlo con lui incontro persino Angela, una ragazza che non vedevo da anni: assurdo incontrarsi all’ingresso di un autogrill a Verona!
Partiamo: ci diciamo che sicuramente dopo il Veneto migliorerà. Mai dire a voce alta le speranza! Da dopo il Veneto ci accompagnerà invece un acquazzone impressionante per moltissimi chilometri.
A Tortona, dove smette di piovere quasi del tutto, il mezzo metro di neve a bordo strada ci convince che in fondo non siamo stati proprio sfortunati, visto che ha smesso di cadere la neve solo ieri.

Il cielo non ispira comunque nulla di buono, beviamo un’ottima cioccolata calda e molto densa e ripartiamo rinvigoriti, anche dal fatto che gli altri, già giunti a Genova, ci dicono che là c’è il sole.
A Genova in effetti, pur essendo il tramonto, il tempo non è per niente brutto, e fa notevolmente più caldo. Saliamo subito verso Pieve e la temperatura è ancora notevolmente più alta, e proprio questo ci verrà spiegato essere il motivo per cui il luogo si chiama “Golfo Paradiso”. Beviamo qualcosa in un bar per telefonare agli altri, ma non c’è campo. La ragazza al bar mi fa girare mezz’ora attorno ad un albero dove dice che è l’unico posto in cui c’è campo, mentre solo dopo aver pagato scopriremo che bastava avanzare di 20 metri!
Arriviamo al Bed & Breakfast, cercando con ovvia faccia divertita la “Via delle Chiappe”.

Poco dopo veniamo raggiunti da Mighe e Cielo, e scopriamo che la stanza riservataci è fredda ed umida come una piscina d’inverno! I letti sono fradici, le lenzuola e le coperte puzzano di muffa umida. Probabilmente il tipo aveva chiuso, ma l’odore di soldi in arrivo in bassa stagione, da buon genovese, l’hanno convinto ad ospitarci ugualmente. Ecco perché a Michele al mattino aveva detto che era chiuso, mentre a me il pomeriggio aveva detto che era aperto! Inoltre, la sua frase “Abbiamo una stanza da 2, una da 3 ed una da 4 letti” dettami al telefono acquista una nuova interpretazione: è chiaro infatti che l'unica stanza esistente è quella da 2, che all'occasione può ospitare fino a 2 letti ulteriori a brandina.
Vabbè. Qualche birra portata da Mighe come aperitivo, una lauta cena servita da una cameriera straniera ma simpatica con due allegre zinnette, un po’ di vino ed una grappa riscaldano gli animi congelati dal viaggio, e ci rintaniamo nei nostri fradici letti emozionati per l’avventura che ci aspetta.

Sabato 13 dicembre

Sveglia presto, bisogna muoversi!
Colazione iper-abbondante per rifarsi del conto della cena del giorno prima, e ci avviamo. Io e Fiky, ancora gli unici in moto, arriviamo in porto e troviamo gli altri che non hanno ancora mollato il loro furgone ex-carro-funebre. Anche questo dettaglio contribuisce a farmi sentire un non so che di avventura bukowskiana, piuttosto che conradiana.
Cerchiamo Mario, ma nulla da fare, non si fa vedere. Il tempo scorre, non sappiamo che fare, alla fine lo troviamo: una persona di primo acchito simpatica, con un pizzo folto e brizzolato, e una fantastica cuffia in lana in testa, che a me da sempre l'idea di qualcosa di “straniero”...
Mario è lì con la sua famiglia: la moglie Anna, la figlia grande Chiara e la piccola Marta. Guida un fuoristrada Toyota, ben diverso dalle bestiali navi da deserto che pensavo guidasse. Con lui c'è anche Jo, un tedesco poi vissuto in Austria quindi trasferito in Italia e sposato con una francese! Un bel miscuglio delle più cocciute popolazioni europee, dunque, che lo rende anche una persona simpaticissima, cordialissima, amante delle risate in compagnia, accompagnato dalla sua dolcissima figlia Lara. Lui invece guida una Mitsubishi.
Appena Mario me lo porge, apro subito il passaporto: subito non lo trovo, ma poi penso che la lingua Araba si scrive da destra, vado dunque all'ultima pagina e ammiro sentendo già un avventuriero la traduzione in arabo dei miei dati!
Subito mi chiedo come faranno queste bambine a sopportare un viaggio simile, ma quando cominciano a sbattermi in faccia i loro viaggi precedenti mi sento un povero cretino, e la voglia di tornarmene mortificato a casa viene oscurata dalla maledetta notizia che causa mare grosso la nave è in ritardo.
Erano in effetti vari giorni che il porto di Genova era chiuso causa maltempo, ma avevo tentato di evitare col pensiero questa alternativa in tutti i modi, tant'è che la notizia mi coglie comunque di sorpresa. Si parla di partenza alle 21! Tenendo conto che sono da poco passate le 13 non è male!
Mentre Mighe e Cielo vanno a parcheggiare il furgone, la notizie muta: non più “partenza”, bensì “arrivo della nave” alle 21! Ma porca trota!
Io e Fiky ci avviamo verso un bar per mangiare un panino e bere una birra, e non si sa da dove giunge la notizia che la partenza avverrà alle 23 e forse la nave farà anche il viaggio lentamente causa mare mosso! Ogni minuto che passa ci raggiunge una brutta notizia, al momento nessuno ha ancora voluto toccare il discorso sul programma di viaggio, che ovviamente sta facendo buchi, ma sappiamo tutti che prima o poi bisognerà pensarci.
Io e Fiky ci avviamo, chiuso ormai il bar, verso il supermercato per prendere qualcosa da bere. Torneremo poco dopo con 9 birre da 66cl, per rinfrancarci un po'! Arrivati al ritrovo con gli altri, cominciamo comunque a fare le pratiche dell'imbarco, per prenderci per tempo. Una volta concluso il tutto, ci ritroviamo nel primo pomeriggio in coda ad aspettare una nave che ora è data in arrivo alle 23! Ma chi è che butta in giro queste notizie? Sono cose che di colpo sai, misteriosamente senza che nessuno te le abbia dette.
Comincia pure a piovere! Indossiamo il casco e l'antipioggia ed in piedi davanti alle nostre moto comincia il passatempo tipico delle etnie friulane e venete: bere e fumare.

Tra una birra e l'altra passiamo un po' di tempo nella sala d'attesa, dove comincio ad abituarmi alla presenza costante di persone arabe, o meglio, mussulmane.
Seduti sulle sedie, guardo tutte queste donne velate (ma a volto scoperto), e questi personaggi strani, che indubbiamente hanno facce non proprio ragguardevoli: il taglio degli occhi, gli zigomi, la bocca, la stessa camminata dei tunisini e degli arabi in generale ci ispira nulla di buono.
Di fronte a noi un sacco di macchinari per il controllo di sicurezza degli imbarchi (metal detector, scansionatori per i bagagli, computer, ecc.) sono stipati contro il muro, ed alcuni bambini ci giocano attorno. Chissà quanti soldi sono costati, sembrano quasi nuovi. Almeno avessero recuperato i computer! E così, per la prima volta (e mi succederà spesso), metto a confronto la mia “civiltà” con quella nord-africana, o araba che dir si voglia, e non ne uscirà sempre vincitrice. Anzi...
Biglietti vari informativi ci danno la definitiva notizia che la nave arriverà alle 23 circa, e partirà verso l'una di notte. A questo punto, tra una birra e l'altra, il discorso non può più essere evitato: questo ritardo ci farà perdere un giorno di viaggio! Infatti il nostro programma contava sul fatto che arrivando il primo pomeriggio, verso sera saremmo stati a Gabes. Ma ora che fare? Arrivare nel mezzo della notte: la soluzione pare essere andare comunque a Gabes, perdere un giorno di albergo pagato e pagarne un altro, e nel frattempo spostare di un giorno le due prenotazioni libiche. Questo implica, ovviamente, una cosa: togliere un giorno al deserto. La mia risposta è decisa e immediata: un secco “no”!
Gli altri pure sono di questo avviso, e poco dopo, scendendo a fumare una sigaretta, Mario mi conferma di essere della stessa idea. Il piano è dunque di dormire il più possibile in nave, e cominciare a fare un viaggio in moto continuo lungo il percorso che avremmo dovuto fare in un giorno e mezzo, togliendo la dormita a metà! Si parla di 1.100 km circa non di autostrada!
Guardo alcuni fedeli inginocchiarsi per terra sopra al proprio giubbotto accuratamente piegato, e dopo essere tolti le scarpe, e cominciare le loro preghiere ad Allah il Grande, rivolti verso una distante e quasi irreale Mecca, e mi fanno da un lato impressione (come tutte le ideologie religiose), da un altro ammirazione (come tutte le fedi religiose). Sto non solo per scoprire il deserto, ma anche per avvicinarmi di più a questo mondo mussulmano che, sinceramente, non ho mai molto apprezzato, ma che desta palesemente molto interesse e soprattutto curiosità.
Ci trasferiamo in un'altra sala d'attesa, assieme alle nostre birre, perché vi fa più caldo, e lì Mario comincia ad informarsi sullo stato delle nostre moto. Bene: quando scopre che il gommista non mi ha montato i fermacopertoni, quasi mi prende a sberle. “Forerai ogni 5 minuti”, “La tua vacanza diventerà un inferno”, “Ma che cazzo sei venuto a fare” - Fortunatamente la compagnia di navigazione ci offre delle pizze e con questa scusa evita che il povero Mario mi spacchi la faccia!
Da questo momento il tema del fermacopertone sarà la presa per il culo dominante, tant'è che arriverò persino a sognarmeli di notte, anche non avendo la più lontana idea di come sono fatti.
In fondo alle scale alcuni tunisini si sono accesi il Narghilè e, sotto lo sguardo insospettito di alcuni agenti, fumano i loro profumatissimi tabacchi, tutti stretti attorno a questo esteticamente splendido oggetto e parlando di continuo.
Una tipa, incazzata come una iena pensavo proprio con me, mi indica sbraitando in francese un'auto con 2 cani chiusi dentro! Mi dice di chiamare la polizia! Ma lo sa dove vive? In Italia! Ovvero: primo, a me più di tanto non sa di situazione pericolosa, il finestrino è aperto; poi, se lo dico alla polizia si mettono a ridere; terzo, e si faccia un po' i cazzi suoi, no? Però, poveri cani...
Finalmente verso le 23 la nave arriva per davvero. Torniamo in coda ai veicoli, guardando piuttosto perplessi i veicoli che ci circondano: furgoni stracarichi di oggetti fino a gonfiarne le porte, macchine con scooter legati sul tetto, altre con intere stanze impacchettate; conosciamo anche un tunisino di Sfax che sul tetto della propria auto ha un'intero soggiorno e un'intera camera da letto! Santa Ikea, altrochè Allah!
Quando gli diciamo che stiamo andando in Libia, lui ci dice, con la solita voce acuta e cantilenante degli arabi, “I libici non capiscono niente. Non parlano francese, non parlano inglese, non capiscono nemmeno me che parlo arabo!”. E si mette a ridere.

Domenica 14 dicembre

Poco dopo lo scoccare della mezzanotte carichiamo le moto sulla nave, saliamo coi bagagli ridendi come matti, perché finalmente pare proprio che ce la faremo. Andiamo alla reception, ci danno le chiavi della camera, e finalmente riesco a darmi una sciacquata e a cambiarmi, togliendo quegli scomodissimi stivali da enduro e indossando delle fantastiche scarpe da ginnastica!
La camera è carina e comoda, non c'è dubbio. Poco dopo saremo comunque tutti 4 stipati in una camera a bere sorsi della fantastica grappa portata da Michele, finchè non crolleremo ciascuno nel suo letto per non sforare dal nuovo progetto di recupero del giorno perso.

Dopo una grossa dormire, ci risvegliamo col sole alto. Abbiamo dormito senza ritegno fin quasi ad ora di pranzo, e dopo una veloce lavata ci avviamo dunque, su suggerimento di Mario, verso la sala da pranzo per rifocillarci. Il menu è tipico tunisino, ovvero incentrato sul cous-cous e la Harissa, che io mangio a chili. Passiamo il resto del pomeriggio conoscendoci un po' l'un l'altro, parlando del più e del meno, del meno e del più, del diviso, della moltiplicazioni, ci presentiamo al gruppo... insomma, facciamo di tutto per far passare il tempo in quella maledetta scatola di sardine galleggiante, mentre il mare continua a farla oscillare, e pare proprio stia incrementando.
Dormiamo ancora qualche ora, finché non viene ora di cena. Cielo non sta sicuramente bene, la nave oscilla vistosamente e lui, afflitto da un buon raffreddore e da una forte otite, ne è sconvolto.
La sua cena sarà ridotta al minimo, cosa che gioca a mio favore: infatti gli farò prendere tutte le porzioni, mangiandole al suo posto, finché arrivati ai formaggi la cameriera mi farà intendere chiaramente che da un pezzo aveva capito la mia sordida macchinazione, ed era semplicemente stata al gioco. Poco male, comunque riesco a farmi una doppia porzione, e pure abbondante, di formaggi francesi.
A pancia piena si torna a dormire. Ma non riesco a stare nel letto a lungo, faccio una doccia, quindi vado sul ponte a vedere le prime luci costiere annunciarmi la costa d'Africa in avvicinamento.
Fremo dalla tensione: l'Africa, il paese lontano, più che nello spazio, nel tempo, nella cultura, nelle abitudini, nelle popolazioni. L'Africa, ed io ci sto per arrivare con la mia moto. Quasi da non crederci.

Lunedì 15 dicembre

All'una del mattino sbarchiamo in terra d'Africa. Non c'è tempo per godere delle proprie emozioni, facciamo in fretta e furia la trafila di carte per l'ingresso in Tunisia nostro e del nostro mezzo, cambiamo i soldi, “Do you speak...” - “No” - “Cazzo nessuno parla inglese” - Cristo, non ci capisco nulla, è buio, mi fanno correre a destra e a sinistra, “Una sigaretta?” - “Sali in moto”, e mi ritrovo come per incanto a correre nel buio attraverso La Goulette, il porto di Tunisi, e quando poco dopo ci fermeremo in un distributore finalmente avrò il tempo, con una cicca tra le dita, di familiarizzare con l'idea che sono sbarcato sul suolo nordafricano, e che le prossime due settimane ci correrò attraverso. Mando un sms a casa per avvisarli dell'avvenuto sbarco, e partiamo per la lunga traversata verso la Libia.
Allora, il piano, inizialmente, era questo:
  • Sbarco nel pomeriggio a Tunisi e trasferimento a Gabes. Pernotto.
  • Giorno dopo via al mattino in frontiera, ingresso in Libia, e trasferimento a Gharyat, o Al Qariyat che dir si voglia. Pernotto.
  • Giorno dopo via al mattino verso Germa. Pernotto.
  • Il giorno successivo inizio del percorso di 7 giorni nel deserto.
  • Invece siamo costretti a fare il seguente percorso:
  • sbarco nella notte a Tunisi, trasferimento a Gabes ed una o due ore di pernotto.
  • Giorno dopo trasferimento in frontiera, e ripresa del piano precedente.
  • Ovviamente, tutti i nostri piani andranno a farsi benedire, ma lo scopriremo in seguito.
    Innanzitutto scopriamo che l'autostrada è ora lunga fino a Sfax: ciò ci permette di tenere una velocità elevata, nonostante il fortissimo vento laterale dalla costa.
    Non vedo nulla attorno a me, so di essere in un altro stato solo per le targhe dei pochi mezzi che incrociamo. Nel frattempo però scopriamo una cosa non piacevole di questa nuova autostrada: non vi sono benzinai. Cominciamo ad intaccare le riserve della tanica presa per Cielo, che ha il serbatoio piccolo. Arriviamo a Sfax quasi tutti coi serbatoi vuoti.
    Ci fermiamo in un distributore a fare benzina e bere un caffè caldo, perché fa un freddo cane, acuito ancora di più dal fortissimo vento.
    Ripartiamo, e corriamo anche per le statali come matti: arriviamo a Gabes verso le 6 del mattino, crolliamo in 4 in una camera gelida per una misera ora di sonno.

    Ci svegliamo super-rincoglioniti, ovviamente. Nonostante tutte le ore passate a letto in nave, il corpo richiede i suoi ritmi. Il sonno non è cumulabile...
    Facciamo una colazione luculliana: o meglio, “faccio”. Mentre mangiamo, si siede vicino a noi un tipo con un turbante rosso in tosta alla maniera prettamente araba, che si fa servire al tavolo dal cameriera parlando di continuo con lui, con noi, con delle ragazze al tavolo a fianco, da solo, e coi suoi 2 cellulari. E' sicuramente un arricchito dal petrolio; ma è indubbiamente anche un povero scemo. Simpatico, senza dubbio; ma scemo. E' tuttavia durante la colazione che scopriamo che Jo è dovuto andare da un meccanico per un problema ai freni. Cazzo! Un ritardo non previsto nel nostro piano. Come se non bastasse, Cielo scopre che la sua moto è letteralmente rotta in due: il telaio è spaccato sotto al motore. Ma farà tutto il viaggio così, ed ancora adesso suppongo sia così. Eh, non fanno più le moto di una volta; è proprio il caso di dirlo!
    Decidiamo di andare nel frattempo a fare benzina alle moto: cominciamo a vagare per la caotica vita di Gabes, e proprio in questi pochi chilometri mi rendo conto di essere in Tunisia, di essere in Africa. Nella notte avrei potuto essere da qualsiasi parte, non si vedeva nulla, ed ero concentrato nella guida. Ora guardo queste persone vestite in modo strano, queste città caotiche e con le strade strette, dietro un angolo troviamo pure una strada di sabbia tra le case; la tentazione di sterrare in centro città è irresistibile. Dietro un angolo riesco finalmente a vedere l'alta costruzione filiforme di un minareto: sulla sua sommità si vedono i megafoni che hanno sostituito l'acuto sforzo del Muezzin nella chiamata alla preghiera dei fedeli. I minareti sono una delle costruzioni religiose che più mi piacciono: snelli, alti, senza particolari abbellimenti, sono il simbolo dei paesi a religione islamica.
    Lo fisso mentre ci passo di fronte, do un'occhiata alla moschea ma nessuno vi cammina attorno.
    Cerchiamo a lungo sia Jo sia il distributore, ma troveremo solo il secondo, e pure a fatica.
    Mentre cerchiamo l'albero incrociamo Mario, che ci dice di proseguire per la frontiera, che Jo ci raggiungerà dopo. Sono circa le 11 e abbiamo un ritardo di 3 ore circa sul programma.
    Attorno a noi il paesaggio finalmente si mostra in tutto il suo splendore africano: il terreno è quasi del tutto di un anomalo color marrone, quasi beige: non ci sono fiumi o torrenti, ma finalmente riesco a rendere materiale il concetto di “Wadi”, fiume in secca, o letto di antico fiume. Ed è proprio nel letto di uno Wadi che vedo il primo dromedario della mia avventura Africana: se ne sta tranquillo e beato a bordo strada a mangiare rami secchi da un albero agonizzante. Ha il mantello marrone scuro, le zampe lunghe, la gobba ben piantata sulla schiena. Il cammello è un animale a mio parere elegante.
    Ad un incrocio riesco a perdermi! Non riesco a non guardare a destra e a sinistra i mercatini che attraversiamo, e non mi accorgo di una rotonda. Pochi minuti dopo ritorno comunque sui miei passi e raggiungo gli altri, che mi avvisano tra l'altro che Jo ci ha già raggiunti. Aveva un problema con un cilindretto dei freni, incastrato, aveva tenuto una pastiglia spinta contro il disco finché si era distrutta. Ma trovati i ricambi, il meccanico aveva risolto tutto.
    Ripartiamo, e mentre attraversiamo una campagna piatta e dai colori un po' smorti, a bordo strada noto la presenza di alcune tracce di sabbia. Ci fermiamo a fumare una sigaretta, ed indubbiamente quella che copre come un sottile velo di seta le distese di ulivi è una sabbia fine e leggere, molto diversa da quella della spiaggia da me conosciuta. Mighe la osserva e dice: “Eh si, è proprio la sabbia del deserto”. La tengo un attimo tra le dita, questa prima propaggine del grande Sahara, e un soffio di vento se la porta via in un attimo. Noto che differentemente dalla nostra è secca, non fa grumi tra sé, ed inoltre non si attacca alla pelle. Noterò questa cosa anche nel deserto vero e proprio.
    Qualcuno non resiste alla tentazione di provare il nuovo terreno.

    Arriviamo in frontiera ad ora di pranzo, circa. Spostiamo l'orologio avanti di un'ora per adeguarci al “fuso libico”, e comincia la trafila delle carte: mostra il passaporto di là, mostralo di qua, la moto, il libretto della moto, un dinaro ad un imbecillo poliziotto libico per un timbro, cambiamo i soldi e cominciamo a chiederci quante volte nella vita abbiamo visto il nostro portasoldi così pieno. Tra Euro, ricevute, Dinari tunisini, Dinari libici, ci sono così tante banconote che ci sentiamo ricchi sfondati.
    E mentre facciamo questi pensieri profondi, compare il nostro poliziotto libico dedicato! Ci dà le fantastiche targhe libiche, che attacchiamo alle moto con notevole orgoglio, e ci dice che dovremo fare un po' di chilometri prima di poter mangiare. Quindi ingrana la marcia e parte a razzo per i nostri primi traumatici chilometri di asfalto libico, caratterizzato infatti da profonde buche trasversali micidiali per le moto. Il nostro primo rifornimento è ancora più traumatico della strada: un litro di benzina costa... non sapremmo neanche dire quanto! So solo che io con 2,5 dinari – anzi, 2 e ½, visto che le banconote hanno segnate proprio le frazioni! – faccio il pieno alla moto. Ed ero quasi a secco!
    Ripartiamo a razzo, e notiamo che la nostra guida tende ad accelerare sempre più, finché non si ferma in un paesino di merda dove possiamo mangiare.
    I primi km di Libia mi lasciano perplesso: qui c'è miseria. Hic non sun leones, si direbbe oggi, qui ci sono solo morti di fame. In Tunisia non vedevo miseria, c'era si povertà, ma onorevole, la povertà di un paese agricolo; in Libia invece vediamo paesini sporchi, luridi, con case semidistrutte, la gente ha la faccia triste e quasi incazzosa, e c'è puzza.
    Comunque, noi siamo stanchi e non abbiamo tempo da perdere: mangiamo il nostro kebab, che ci viene offerto con tutti gli ingredienti in piattini e in quantità industriale, io e Cielo compriamo un po' di cicche, e ripartiamo.
    Questa volta la guida va molto più che a razzo: è super-sonica. E' il tramonto ed accelera sempre più per una strada trafficatissima, tanto che facciamo fatica a stargli dietro. A tratti accende le quattro frecce per farsi riconoscere tra le altre auto.
    La strada è trafficatissima, molto larga ma non ci sono corsie, né regole, per cui ti ritrovi a correre a 130 all'ora dietro a questa vettura che si allontana sempre più facendo lo slalom tra altre auto, mentre tu ti trovi a volte circondati da vetture che a 160/170 all'ora ti sfiorano le gambe o la moto. E' allucinante, cerchiamo i lampeggi per trovare la guida e diamo ancora più gas per starle dietro, abituandoci all'infrazione sistematiche di tutte le norme alla guida sia legali sia di semplice buonsenso.
    Michele comincia a vacillare: suggerisce l'idea di accorciare la tappa odierna per allungare la successiva. A me l'idea ovviamente non va: so che conviene sacrificarci oggi per domani, le tappe di deserto non vanno toccate; lui non ha ancora toccato questo argomento, ma tutto porta lì, e lo farà a breve. Il deserto, però, non si tocca!
    Comincio, tra una sosta e l'altra, a spronarli con ogni possibile argomento: “Ve ne pentirete in seguito”, “Ormai quasi ci siamo”, “Tra poco la strada migliora”, “Al sud ci sono meno auto”. In mio aiuto vengono tre cose: in alcuni tratti la strada è in rifacimento, e ciò ci costringe a piccoli ma godibili tratti di sterrato in notturna; in secondo luogo, la guida ci fotte allegramente sui km, dice che mancano chilometraggi sempre diversi, che non tornano con quelli appena fatti, e i rimanenti in pratica sono sempre di più; infine, Mario sfodera la sua personale fiaschetta con all'interno del prezioso ed ottimo Whisky, che rinvigorisce gli animi dei veneti.
    Alla fine gli altri cedono, e decidono che vogliono fermarsi a dormire per la strada; anche qui la guida però mi aiuta, dice di andare avanti ancora un pochino e farà fare più di 100 km nel gelo totale della notte, offrendoci poi la possibilità di dormire in un posto gelido, in tenda, sopra a pietre taglianti, in piena battuta di vento, con cani randagi a farci inquietante compagnia.
    Quando Mario gli chiede quanto manca all'albergo lui porta a compimento la sua subdola tattica: 120 km, il posto è caldo e c'è la doccia. Ovviamente decidiamo di continuare.
    Be, se non abbiamo pestato la guida, quella sera, è stato un miracolo: l'albergo è praticamente un caravanserraglio di quelli raccontati ne “Le 1000 e una notte”, ma oggi per camionisti. La nostra stanza è un buco sporco e coi muri scrostati, con 4 tappeti e quattro materassi gettati per terra; caldo in effetti c'è, tenuto conto che fuori saranno zero gradi nella stanza ce ne saranno almeno 2! E la doccia... La cornetta posta sopra una turca lercia, in cui persino io non mi sarei lavato! Ma almeno non siamo in battuta di vento, ed il ristorante è inoltre ancora aperto!

    E' quasi mezzanotte, e mentre le donne e le bambine famigliarizzano con gli scarafoni nostri compagni di “hotel”, noi maschi ingurgitiamo zuppa di ceci e pollo fritti e cous cous, davanti ad una miriade di foto del mitico Ghedda, raccontandoci che, alla fin fine, siamo riusciti a portare a termine il progetto di recuperare il tempo perso.

    Infatti, nonostante sia tardi, domattina ci sveglieremo nei nostri sacchi a pelo sicuramente stanchi, ma perfettamente in orario col programma iniziale del viaggio: abbiamo fatto 1.100 km con un'ora di dormita nel gelo di Gabes! Ce l'abbiamo fatta!

    Martedì 16 dicembre

    Comincia la pacchia. Il mattino, infatti, dopo una magra colazione ed una dormita comunque troppo corto, il primo sguardo che diamo al panorama raggiunto di notte è spettacolare: una distesa marrone lunga fino all'orizzonte, con alcuni monti o colline strani ed inquietanti appena visibili.

    Tutto è uniforme e strano, è un panorama completamente estraneo a ciò che ho visto in passato, e cominciamo tutti a fare le prime vere e serie foto.
    Ripartiti, cominciamo a percorrere una lunga strada asfaltata sempre dritta, o quasi, costellata di assurdi cartelli strada. Un cartello con limite di 80 km/h su un rettilineo di 300 km sembra infatti quasi inutile, come invece assurdo è “Curva pericolosa a sinistra” quando quella leggera piega che si vede poco avanti chiamarla “curva” è sicuramente esagerato.
    Tuttavia, il panorama continua a restare così piatto che alla fine alcuni di noi cominciano a buttarsi fuori dall'asfalto ed a correre su quella terra strana dalla sconosciuta consistenza, ottima per i nostri tasselli.
    Io così faccio fare anche le prove di sterrato alle mie valigie nuove nuove! Prove riuscite, devo dire.
    Quando poi mi concedo anche un bel salto, capisco che da un lato le borse tengono molto bene, ma dall'altro è forse meglio non sapere fino a che punto sono disposte a tenere...
    A bordo strada si fanno anche i primi avvistamenti di cammelli al pascolo, liberi, e io e Michele non riusciamo ovviamente a trattenerci dal fare una foto alle nostre moto vicino all'unico cartello stradale adorato da ogni motociclista viaggiatore, ed endurista: “Attenzione, cammelli”!

    La monotonia del paesaggio non è assolutamente fastidiosa: come ogni nuovo territorio che attraverso, sono estasiato da questi nuovi panorami così diversi da quelli usuali che non me ne annoio, e continuo a guardarmi in giro ad ogni metro, a guidare allegro, in piedi, ad uscire dall'asfalto.
    Pian piano al panorama brullo fa seguito una infinita distesa di sassi tra i quali, come in Tunisia, comincio a riconoscere della finissima sabbia. Lascio andare avanti gli altri e gli dico che li raggiungo, scendo dalla moto e ne raccolgo un po': non c'è dubbio. Guardo lontano, alcuni monti hanno una forma strana, scendono lievi come si fossero sciolti. No, non sono dune, ma quei monticelli sicuramente si stanno sgretolando. E la roccia sgretolata forma la sabbia.

    Faccio qualche foto, e soprattutto tocco ancora un po' la sabbia: questo viaggio, iniziato in modo così avventuroso, mi sta piacendo sempre più, ma comincio a sentire il richiamo del deserto. Lascio cadere i granelli di sabbia e spengo la sigaretta e riparto.
    Verso l'una ci fermiamo a mangiare in un posto che sembra uscito da un film western all'italiana: un locale in mezzo al nulla assoluto, gestito da un tipo che più strabico non avrebbe potuto essere nessuno, che però ci ha fornito di sandwich al pollo tra i più buoni che abbia mai mangiato.

    A breve il nostro viaggio comincerà a cambiare. Già gli ultimi panorami, la sabbia che si intrufola tra le pietre, questo stesso “bar” costruito nel nulla radicale ci fa assaporare la fine di un tratto semplicemente di trasferimento. Partiti da qui, però dopo uno o due incroci cominciamo a percorrere una strada asfaltata semi distrutta; la sabbia a bordo strada è aumentata considerevolmente, si intrufola sotto l'asfalto e lo distrugge. Mentre guido tentando di evitare tutte le buche tengo la testa bassa, ma ad un certo punto, alzato lo sguardo, vedo in lontananza delle colline dalla forma strana. Il cielo è grigio, c'è foschia e il vento solleva molta sabbia, per cui non c'è gran visibilità. Ma mi insospettiscono.
    La strada asfalta si sostituisce ad uno sterrato polveroso parallelo poiché ci sono lavori in corso, e non ci vedo più nulla, ma come finisce torno a guardare lontano ed all'orizzonte, oltre la coltre di polvere, immobili, silenziose, minacciose ma terribilmente affascinanti le dune, come un oceano pietrificato, ci fissano silenziose. L'emozione mi gela il sangue: è il deserto dell'Awbari che in lontananza sto vedendo. Attendo un attimo, l'aria si rischiara ed ho la visione più bella dall'inizio del viaggio. Accelero un po' per affiancarmi a Cielo, gli indico l'orizzonte e con la mano faccio un movimento ondulatorio: lui guarda, quindi si gira verso di me con un sorriso visibilissimo anche attraverso il casco: ce l'abbiamo fatta!
    Pochi minuti dopo le nostre moto corrono a fianco a queste forme strani, ne ammiro le creste frastagliate ma precise, come disegnate da un architetto. Sono splendide. La perfezione di una duna di fa credere che Dio esista veramente – sembrano sul punto di scaraventarsi al suolo come onde marine durante una tempesta, ed invece se ne restano lì, giganti di sabbia dai colori più splendenti di quello dell'oro puro.

    Il crepuscolo avanza, le dune scompaiono, ma compaiono monti screpolato e neri con la base formata ormai da sabbia ed i picchi da ciottoli immensi. Sulla destra tuttavia comincio ad intravvedere una catena di dune continua e lontana, ma che man mano che passano i km diventa sempre più vicina. La strada è tuttavia un inferno: asfalto semidistrutto, mancanza di corsie, a volte vedi macchine che pare ti puntino addosso, ed a volte lo fanno veramente. La nostra guida è scomparsa lontana, sappiamo che la troveremo al prossimo posto di blocco della polizia.
    Le dune alla mia destra sono sempre più vicine, e continuano da km: è l'inizio del Mare di Sabbia dell'Ubari, l'Idhan Awbari, un erg enorme che da qui continua in pratica fino a Gadamesh.
    Quando arriviamo al posto di blocco, la guida ci dice che siamo finalmente giunti a Germa, dove c'è il nostro campeggio. Per raggiungerlo si inoltra nel villaggio, e scopro malvolentieri che a parte la strada principale asfaltata, tutte le strade interne sono di sabbia. Con la moto carica rischio di finire al suolo svariate volte, nonché di essere investito da Mario quando bisogna fare inversione perché non si trova l'ingresso del campeggio!
    Percorriamo una terribile strada sabbiosa in cui io fatico come un pazzo, e mi anticipa ciò che dovrò sopportare i giorni seguenti. Capisco intanto che non montare il Desert anteriore è stata una cazzata mastodontica: la T63 non tiene assolutamente niente!
    Raggiungiamo uno spiazzo sabbioso d'ingresso al campeggio, dopo aver attraversato un sentiero tra le palme, e mi sento come un esploratore avventuriero raggiunta un'oasi sperduta: la metà, la scoperta, la novità, il mistero del Deserto, tutto unito all'emozione di aver intravisto in città, prima del campeggio, un uomo col turbante in testa. Nello spiazzo ci fermiamo perché manca il gestore del campeggio, ed io mi godo una rilassante sigaretta mentre il cielo si tinge di nero, le ombre ormai lunghe son sempre più scure, ed oltre le palme si intuisce la presenza di una enorme massa di sabbia.
    Una volta entrati, il campeggio sembra subito da favola: dei piccoli bungalow sanno proprio di avventura, il bar mi ricorda le foto viste dei vari baretti gestiti dai berberi in Tunisia. Che figata! Sono in Libia, ai margini del deserto, e domani si parte!
    Togliamo dalle moto i bagagli, finalmente io levo le borse laterali e mentre guido la moto libera per portarla vicino al mio bungalow mi pare di guidare una bicicletta. La parcheggio, porto all'interno qualcosa, mi metto le scarpe da ginnastica e mi vesto comodo e, ennesima sigaretta tra le labbra, esco per ammirare un tramonto con così tanti colori che pare quasi un fotomontaggio.

    Ci facciamo una doccia, quindi andiamo a mangiare: cous cous, zuppa, frutta, e brindiamo con della non-ottima Beck's analcolica! Mentre seduti a tavola parlo e rido, ad un certo punto mi volto e seduto vicino a Mario lo vedo: sguardo simpatico ma attentissimo, un bel sorriso con denti marci ma molto sincero, l'espressione profondamente attenta alle parole di Mario, ma gentile. C'è della nobiltà nel suo stare seduto ad ascoltare e parlare. Il turbante gli copre la testa e parte del volto, ma lascia libera la bocca. Alle sue spalle ce n'è un altro più giovane, col turbante che gli copre il volto: fa il giro della tavolata presentandosi – Arun – e porgendoci una mano scusa come l'ebano.
    Sono la nostra guida ed il nostro “cuoco”. Ma prima di tutto, sono due Tuareg.
    Questo popolo misterioso ed affascinante. Prima di partire mi ero fatto, da buon occidentale, una piccola cultura tramite alcuni libri. Gli abitanti del deserto, gli “uomini blu”, coloro che si velano il volto per non avere la sconvenienza di mostrare le emozioni, gente plasmata da un territorio inospitale e nemico. L'uomo occidentale plasma la natura, per lui è un mezzo, da modificare per abitarlo; i Tuareg, o come si chiamano loro, i “Kel Tamashek”, all'opposto modificano loro stessi per adattarsi ad un territorio che è tutto fuorche plasmabile. L'estrema indipendenza dal e resistenza all'uomo rendono il deserto ed il popolo che lo ama e vi vive una cosa unica, che non può essere spiegata quando ci si trova di fronte a loro. C'è antichità nel loro sguardo, c'è lontanza, mistero, è un popolo essenzialmente “poetico”.
    Quello seduto, Assan Sharif, è la nostra guida e parla un po' di inglese. Con lui viaggerà “El sbirro”, come ormai chiamiamo il poliziotto arabo. Quello che si è presentato è Arùn (correttamente, Aruna), il cuoco, che parla francese, e con lui viaggerà Mulhai Sharif, aiuto guida, persona più anziana degli altri che parla solo arabo e Tamashek e mai si toglierà o allenterà il suo Taguelmoust, il velo. Lui è quello che più di tutti, quando lo guardo, mi rende l'idea di cosa siano stati i Tuareg in passato, di cosa siano oggi: Mulhai lo devi capire, dai suoi piccoli gesti. La serietà fiera del suo sguardo è nobile, può apparire scontroso e cattivo, quando saltuariamente mormora qualcosa in Tamashek, una lingua ricca di consonanti più dell'arabo, che sembra quasi ticchettare tra le labbra del popolo che lo parla. Ma poi lo guardi nella quotidianità, e scopri un'altra persona: me ne sono reso conto del tutto quando, fermi in mezzo al nulla per una pausa, l'ho visto camminare fin davanti all'auto, sedersi piano sul paraurti, e cominciare ad osservare le dune lontane. O quando una notte, davanti al fuoco, ha cominciato a prendere della sabbia che stava vicino al fuoco e, senza che glielo avesse chiesto nessuno, a metterla sopra i piedi delle due bambine per riscaldarle, un gesto silenzioso e gentile.
    Ci salutiamo ed andiamo a letto: a dire la verità noi bikers vogliamo fare un altro brindisi all'avventura che ci aspetta, e mi avvio verso il bar per comprare delle Beck's analcoliche; passando vicino al Pick-Up della guida, a fianco, per terra, vi trovo coricato Assan Sharif che dorme!
    La notte sarà per me piuttosto movimentata per la tensione della nuova parte di viaggio che domani cominceremo, e che sarà oltre alla più bella, anche la più difficile.
    Nutro seri dubbi sulle mie capacità e su quelle di “Legione”.

    Mercoledì 17 dicembre

    Si comincia. Alcuni bagagli li lasceremo in campeggio, dove torneremo tra 5 giorni per una pausa. Gli altri (i calzoni e le scarpe da ginnastica, il sacco a pelo, e ricambi della moto) li diamo ai nostri Tuareg.
    Usciamo dal campeggio e sono già emozionato.
    Cominciamo a girare per le strade alla ricerca di benzinai per fare il pieno ai mezzi ed ai fusti. “Ma come faranno a guidare quei mezzi strapieni di oggetti nel deserto?” mi chiedo.
    Infine, pronto tutto, imbocchiamo una strada asfaltata che non seguiremo per molto: dei lavori in corso ci porteranno quasi subito a correre sulla sabbia, ed a questo punto non mi chiederò più nulla sulle possibilità di guida dei mezzi degli altri, ma mi concentrerò sul mio. Guidare sulla sabbia del Sahara è complesso: la moto tende sempre a sprofondare, non c'è più rapporto fra gas aperto e movimento, perché la ruota dietro perlopiù gira libera, non avendo appigli. La gomma davanti invece sbacchetta di continuo, e devi abituarti a questa sensazione. Non è niente di simile al ghiaione del Tagliamento, dove corro spesso. Le curve e in generale tutto i cambiamenti di direzione non li fai più col manubrio, ma col peso di tutto il corpo giocando sulle pedaline.
    Ad un certo punto rientriamo sull'asfalto, ancora una tappa benzina, quindi le guide ci dicono che ora si comincia a far le cose serie. Usciamo dall'asfalto salutandolo senza troppe cerimonie e cominciamo a correre in un territorio che sembra piatto ma non è piatto, che sembra compatto ma non è compatto, che davanti – dietro – a destra – a sinistra non ha assolutamente niente. Pare continuare per 10 km come per 1.000, non hai punti di riferimento, le nuvole coprono il sole e rendono uniforme persino il cielo. E' praticamente impossibile andare dritti, ci proviamo ma dopo pochi minuti ci accorgiamo che siamo lontani l'uno dall'altro parecchi metri. Se fossi solo mi perderei in pochi secondi. Alcune gocce di pioggia ci lasciano di stucco, siamo in pieno deserto! Le guide seguono dei segnali per me quasi invisibili: un copertone, un rametto, dei sassi in pila. Comincio a prendere confidenza con la Transalp ed accelero, lei comincia a galleggiare sul terreno, un po' di peso sulla pedalina ed un filo di gas di più e con una simpatica derapata lei vira. E' bellissimo, è libertà pura, non è un'esperienza, è quasi un concetto.
    Continuiamo così per molto tempo, io ormai mi sto divertendo come un matto, accelero forte e mi allontano dagli altri seguendo traiettorie come l'istinto me le suggerisce. Mi sento benissimo.
    Il terreno a tratti riserva qualche sorpresa: un avvallamento invisibile finché non ci sei dentro, un cespuglio, il letto di un fiume. E' in uno di questi che Michele prende una dunetta invisibile e fa un salto altissimo da terra, che io vedo da lato, e in cui ho veramente temuto che all'atterraggio sarebbe sprofondato dentro la sabbia fino al centro della terra!
    Io prendendo le mie traiettorie finisco invece in una zona in cui ci sono delle minuscole ondulazioni sulla sabbia, dure, simili alla lamiera ondulata: è il mio primo contatto col temibile Tole Onduleé, il nemico di tutti i mezzi a motore. Le vibrazioni che crea sul mezzo infatti possono mandarlo in risonanza, e in pochi minuti il mezzo, letteralmente, si smonta, perdendo tutte le viti, svitate da mani invisibili. Accelero un po' per uscirne e riallinearmi i miei, ma probabilmente non trovo la giusta velocità che mi permette di attraversarlo in volo, ed appena finisce constato subito la perdita di una vita nel carter della catena. Con una fascetta il problema è risolto: ho pagato con una vite il mio primo obolo al Sahara.

    Ogni tanto i ciuffi di piante aumentano, a tratti diminuiscono. Ad un certo punto c'è un area piena, che da sinistra corre verso destra fino all'orizzone; anzi, visto che sono in un paese arabo, forse devo dire che corre da destra a sinistra! Bo, comunque è una lunga striscia, che i fuoristrada cominciano ad attraversare. Come entro nella loro scia scopro una cosa che i giorni seguenti mi farà dannare: la mancanza di una gomma buona all'anteriore è ancora più terribile quando entro nelle scie delle gomme delle auto, che spaccano letteralemente la superficie della sabbia e diventa ancora più soffice. E' come guidare sul burro con delle gomme calde, la moto va a destra ed a sinistra e con difficoltà riesco a stare in piedi. In mezzo a questo terreno ci fermiamo per la pausa pranzo.
    Questo scie di piante non sono altro che antichi Wadi, oggi fiumi sotterranei. Nel corso del nostro viaggio lo attraverseremo più volte, e in seguito ne incontreremo molti altri, fugace vitalità del deserto, silenziosa e nascosta come un Tuareg; o è più vero il contrario!
    Lontane, oltre la foschia, sempre le dune si stendono sull'orizzonte da parte a parte.
    Facciamo subito conoscenza con la cucina di Aroun. A pranzo ci prepara sempre dei vassoi con tonno, sarde, cipolla, fagioli bianchi e rossi, piselli, ceci, patate, pomodori, formaggio tipo il nostro grana ma morbido. Divoriamo quasi tutto, lasciando qualcosa che l'economia del deserto non permette di buttare via: coi residui, quando ci sono, la sera Aroun prepara un ottimo sughetto piccante per la pastasciutta cotta, bisogna dirlo, in maniera magistrale!
    Mangiamo seduti per terra, tra le sabbie di un luogo incantato.
    I nostri fidati Tuareg, ancora non completamente integrati, mangiano in parte.

    Quando finiamo il lauto pasto Aroun sparecchia tutto in pochi secondi e lava i vassoi, mentre noi motociclisti facciamo il nostro primo rifornimento tra le sabbie.
    Ripartiamo: l'atmosfera si è un po' schiarita, usciamo dalle sabbie mobili dello Wadi e ci dirigiamo, con nostra emozione, proprio verso le dune che ora sono più chiare e si stagliano nette dall'orizzonte verso il cielo. Nel mentre, io continuo a zigzagare libero come un libellula per la sabbia, che pian piano diventa sempre più fina e più soffice, trappola mortale per i 2 quintali e rotti della mia moto.
    Corriamo, e d'incanto ci troviamo proprio a mirare imponenti cordoni di dune: alla nostra destra, il plateau infinito, alla nostra sinistra immense montagne di sabbia alte 100 metri o più. L'erg dunoso comincia così, di colpo, è un mare vero e proprio, con una costa, un litorale, e delle immense onde pietrificate da una forza troppo potente per essere compresa.
    Il terreno comincia a farsi terribilmente ondulato. A volte l'orizzonte, apparentemente distante decine di km, si avvicina veloce e ti pare quasi di essere ai limiti del mondo, disco piatto; rallento muovendomi a zig-zag per far andare avanti la guida, ed osservo bene il movimento della vettura per vedere se oltre il limite visibile la vettura si inclina in basso. Invece continua a correre. Altre volte scompare nel nulla inghiottita dal terreno, in zone in cui sembra che con una livella un fabbro gigante abbia levigato la superficie di questo luogo incantato, ed invece sono discese impercettibili finché non ne sei dentro.
    Ricordo la raccomandazione di Assan Sharif: “Vitesse c'est dangereux”, e comincio a comprenderne il vero significato. Nel deserto nulla è come sembra, il miraggio classico, quello che siamo abituati ad immaginare, l'oasi con un bar dove non c'è nulla, in realtà è solo l'ultimo trucco del Sahara per fregarti: il primo è proprio sconvolgere la tua visione tridimensionale.
    Le vetture si fermano, noi motociclisti siamo andati molto avanti; io faccio una virata con derapata magnifica – modestamente – e torno indietro; le vetture si sono rimesse in moto, giro loro attorno due o tre volte per accertarmi che tutto sia a posto e riparto.
    Poco dopo ricomincia il sali-scendi del terreno, non capisco se siamo più in alto o più in basso. Ma di cosa, poi? Non saprei, non ho più punti di riferimento esterni, ed a giudicare dalle mie emozioni non ne ho più neanche dentro di me. Tempo e spazio sono andati a farsi benedire, soggettivismo, oggettivismo, realismo, il deserto ha distrutto tutto. E' un'esperienza magnifica.
    Poco dopo ci fermiamo ai piedi di una duna immensa: è magnifica. Anna mi fa i complimenti; “Per cosa?”, per come derapavo girandole attorno prima. In realtà, su quella sabbia ero costretto a fare così, poiché se mi fermo è finita. E basta vedere la mia moto ora, com'è insabbiata, per capire che non erano virtuosismi, erano le uniche mie armi per la salvezza!
    La Transalp è infatti parcheggiata in “stile deserto”: ruota dietro affondata nella sabbia, grazie ad un burnout facile e pulito. Il problema sarà ripartire!

    Il vento è fortissimo, saliamo a piedi sulla duna per vedere il panorama, e ciò che ci si offre agli occhi è di una desolazione magnifica.
    Hegel si rivolterà nella tomba, ma in quel momento mi è tornata in mente la sua Fenomenologia, con la splendida asserzione: Lo Spirito trova la sua verità nella devastazione assoluta. Ma è nel pieno stile del deserto distruggere ogni cosa, per portarla a nuovi significati: l'idealismo nell'esistenzialismo senza eccezione.


    Mi fermo ad osservare la cresta della duna, perfetta nella sua cristallina forma, una linea sinuosa che finisce in un granello, a fronte dei milioni che ne formano la base. La osservo a lungo, prima che i nostri passi dissacranti la distruggano, comunque temporaneamente. Questo forte vento annienterà le nostre tracce in pochi secondi.

    Jo prende la sua tavola da snowboard e cammina fino in cima, quindi prova la sua prima discesa, la prima di molte successive. Poi è il delirio, anche questo il primo di molti: Mario tenta di scendere seduto su un sacco di plastica, Mighe invece si siede sopra la tavola di Lara e comincia a remare per scendere, riuscendoci, con tanto di capitombolo carpiato finale.
    Passara la frenesia, scendiamo dalla duna, i capelli sconvolti per il vento, gli occhi rossi, e saliamo sulle moto per tentarne la scalata. A me sembra troppo ripida per la mia moto, ma la sabbia non è poi così molle; anzi, è quasi compatta su questo versante. Quasi... Mighe sale e quasi rovina dal versante opposto, Fiky gli arriva a fianco, Cielo si pianta sempre in cima, io arrivo fino in cima e mi fermo a mia volta perché oltre loro non c'è più spazio. Ce l'ho fatta, la prima duna è andata! Ma ora bisogna scendere. Comincio a girare il manubrio a destra e sinistra, come consigliato da Mario, peso a monte, per disincagliare la moto; che infatti si gira piano, cominciando a puntare verso il basso. Ed a questo punto, da questa angolazione, mi rendo conto che la discesa è ripidissima, ma ormai sono a cavallo e devo cavalcare: ingrano la seconda, punto il muso al suolo, accelero e mi siedo praticamente sul portapacchi, dando gas quando sento l'anteriore affondare troppo e lavorando leggermente sul freno posteriore per trasferire peso dietro. In pochi secondi sono a terra. Ora, ripensandoci, guardando le foto, mi viene quasi da ridere alla paura provocata di fronte a quella dunetta, pensando a cosa avremo attraversato in seguito!
    Scesi, gli altri sono già in marcia, si passa un piccolo avvallamento e si fa un'altra discesa sospetta. Ricominciamo a correre per un terreno più piatto, attraversiamo nuovamente lo Wadi che aveva visto, più lontano, il nostro primo pranzo "sabbioso", e ci immettiamo in una pista tra ciottoli di roccia veramente mozzafiato: sale e scende leggermente, tutta curve, il fondo di sabbia indurito da alcuni sdrucciolevoli sassi. La adoro: culo indietro, lavorando di gran gas a marce basse e giri allegri, la fai in gran velocità con qualche saltino e qualche impennata che è un piacere. In alcuni tratti le auto soffrono, e in questi invece noi in moto godiamo in maniera quasi sconveniente, sorpassandole e andando avanti, fino a che qualche incrocio misterioso ci lascia senza percorso e dobbiamo aspettare le attente guide, che ridono quando ci vedono così contenti come bambini.

    La strada continua così per parecchi chilometri, poi una curva, una discesa, passiamo davanti ad una capanna abitata da un solitario Tuareg in mezzo a chilometri e chilometri di nulla, una curva, e scendiamo - come segnalato da un cartello - nel celebre Wadi Mektandoush la cui sabbia è terribile. Io faccio qualche metro e mi insabbio, lasciando lì la moto, Michele prova a fare qualche metro di più ma si insabbia a sua volta; anche i due leggeri TTE hanno i loro benemeriti cazzi! Si fa sera. Questo sarà il nostro campo. Fa già ben freddo, e subito il pensiero mi corre al sacco a pelo invernale lasciato a casa... Ma non penso molto, poiché in questo Wadi avrò per la prima volta visione di antichi graffiti, alcuni risalenti anche a 12.000 anni fa. Mi avvio con una sigaretta corroborante tra le labbra verso dei cammelli che pascolano liberi lì vicino, quando mi chiamano dalle rocce: è pieno di graffiti! Mi precito verso la parete rocciosa attraversando lo Wadi, e rimango incantato di fronte all'incisione di una giraffa. La osservo, ne sfioro timoroso la superficie, passo il dito per un secondo tra i tratti profondi anche mezzo centimetro, e di colpo mi rendo conto di cosa sto guardando: testimonianze che emergono dagli abissi del tempo di popoli che non ci sono più, che vivevano in un posto che non può essere questo. Elefanti, giraffe, mufloni, persino rinoceronti, e in alto Marta e Lara di mostrano i due felini che avevo visto nella guida: sono impressionanti, la loro superficie è tutta levigata.

    Mi giro e mi siedo su una pietra, accendo una sigaretta e appoggiato alla parete di roccia osservo questo antico fiume: il letto sabbioso corre da destra a sinistra (o da sinistra a destra?), l'argine opposte sale calmo verso la baracca del Tuareg, mentre dalla mia parte un'alta parete rocciosa formata da massi enormi mi parla da ere ormai cancellate dallo scorrere del tempo.

    E' difficile dire qualcosa di fronte a questi graffiti: sono sempre stato attratto da queste testimonianze preistoriche. Se ne escono dal buio dei tempi gradatamente, sempre mezze rovinate, come un volto in penombra; sono talmente antiche, di popoli che sono i tuoi progenitori, che quasi le senti tue. E' questa la differenza con l'arte vera e proprio: Michelangelo, Caravaggio, hanno fatto cose splendide, ma le senti distanti da me; in queste invece ho quasi reminiscenza di averci in parte lavorato. Cosa ci volevi dire? Ma ci volevi poi dire qualcosa? Ritraevi, o sognavi? Immaginavi, o vedevi? A chi parlavi, a chi ti rivolgevi?
    Lara e Marta mi urlano che hanno trovato un sacco di altri graffiti: in pratica la parete ne è piena. Al mio fianco vedo una scritta: è alfabeto Tifinagh, lo riconosco, un alfabeto strano, secco, preciso, senza fronzoli. E' l'alfabeto dei Tuareg, conosciuto ed insegnato dalle loro donne. Ha la caratteristica di poter essere scritto in qualsiasi direzione, forse per venire incontro al tipo di superficie che si trovano di fronte: il senso è riconoscibile dall'espressione "Awa nek" che identifica chi parla. E' come se io, ogni volta che scrivo, iniziassi con "Sono io, Federico, che..." - per indicare da dove cominciare a leggere. Anche queste scritte sono molto antiche, poichè antico è il popolo Tuareg.
    Me ne torno verso il campo pensieroso, e scopro che Aroun ci ha preparato l'acqua calda: mi faccio un thè, mangio qualche biscotto fissando l'argine dello Wadi. Poi mi cambio, metto le scarpe da ginnastica, con Fiky monto la tenda, quindi mi incammino da solo verso la parte opposta delle rocce, e vi trovo un'infinità di graffiti, uno più bello dell'altro. Ma forse il concetto di "bello" qui è completamente ininfluente, superato, inutile. Non c'è una parola per indicare questa "cosa".

    Mentre vago tra le rocce noto che c'è anche Anna, e parliamo tra noi, nel silenzio del deserto, di ciò che stiamo ammirando.
    Torniamo al campo, è ora di cena, la notte scende repentina, e dopo un'abbondante mangiata noto che, di fronte al fuoco, ci sono anche i Tuareg, seduti tra noi, e stanno facendo il loro thè. Non un thè, in generale: il LORO, creato con movimenti antichi, con una cerimonia che mentre la guardo, la metto a confronto con i gesti che millenni prima hanno scolpito nella roccia figure banali consegnando alle generazione future testimonianze della nascita del genere umano.
    Questa volta i Tuareg stanno tra noi, e ci offrono il loro thè: tre tazzine, come avevo letto in un libro, per sancire tra noi e loro la nostra momentanea amicizia. Il loro thè è forte, molto forte, e molto zuccherato, versato in minuscoli bicchieri, e ricoperto da 1 cm di schiuma. Quando chiediamo ad Aroun perchè ci sia la schiuma lui risponde che la schiuma serve e proteggere il thè dalla sabbia, che si appoggia sulla schiuma e non scende nel liquido: quindi prende il bicchiere e ridendo ci mostra come si beve il thè. Una sorsata rumorosa per inghiottire la schiuma, e un urlo acuto, con gran risata finale! Questo ragazzo si dimostra da subito una persona simpaticissima e cordialissima, che a fine giornata, davanti al fuoco, vuole parlare, cantare, suonare, ballare, ridere e scherzare.

    Seduto su un tronco, intona una canzone sul Ténéré veramente bella: quando gli chiediamo cosa significhino le parole in Tamashek, lui ci dice che parla di due amici che si sono conosciuti nel Ténéré da bambini, e poi non si sono più visti, tornati alle loro tribù; ma ogni volta che tornano con le carovane nel Ténéré, si ricordano l'uno nell'altro. "Come voi" - continua Aroun - "quando tornerete in Italia, quando penserete al Ténéré ricorderete il vostro amico Tuareg che vi cantava la canzone". Si, amico Aroun, la canticchio ancora quella canzone, e con molta triste nostalgia ripenso a te, ai due Sharif, ai miei amici compagni di viaggio, e al Deserto.
    Quella notte in tenda scoprirò il gelo della notte sahariana.

    Giovedì 18 dicembre

    Mi sveglio semi congelato varie volte nella notte, e sento il silenzio rotto dal rumorosissimo russare di Cielo! Impressionante, fa dei versi spaventosi, sono persino indeciso se sia lui, perché alcuni sembrano inumani.
    Alla fine la mattina arriva, esco dalla tenda e a pochi metri da me i cammelli si stanno spostando, disturbati forse dalle nostre voci. Lauta colazione, e via con Assan Sharif e vedere uno a uno i graffiti. Sono tantissimi, e bellissimi. Mentre siamo sopra le rocce, notiamo sotto di noi, tra la sabbia, ed invisibile dal basso un enorme foro: è un pozzo. I Tuareg sono stati per secoli di custodi dei pozzi, da essi dipendeva la loro sopravvivenza; ora che non possono più fare la loro vita nomade, i loro pozzo si stanno rovinando. Come trovavano l'acqua? Saggezze che si perdono, e la nostra civiltà tenta di rimpiazzarle. Un enorme tubo di cemento abbandonato a fianco fa intendere come la tecnologia occidentale abbia tentato invano di salvare il pozzo, che invece le mani dei Tuareg custodiscono abilmente.

    Finita la visita, salgo in moto, mi disinsabbio, faccio il pieno di benza e salgo verso l'uscita dallo Wadi, dove c'è la capanna del Tuareg. Lasciamo andare avanti per qualche km le auto, poiché noi in moto in questa pietraia ci muoviamo molto più velocemente, quindi partiamo. Faccio un cenno con la mano al solitario Tuareg che mi risponde animosamente; quando rivedrà altre persone?
    Ripartiamo sulla pietraia, le dune distanti segnano il confine dell'inizio del Idhan Murzuq, il Mare di Sabbia di Murzuq. Noi corriamo paralleli circa a questo confine col nulla di sabbia, quindi ci addentriamo nuovamente in una pietraia ancora più sconnessa, quindi ancora più divertente. Di nuovo lasciamo andare avanti i fuoristrada, che però dopo pochi minuti sembrano svaniti nel nulla. Eppure il terreno sembra tutto piatto, nero come la pece cosparso da questi sassi che sembrano assorbire tutta la luce del Sole. Ci rimettiamo in moto, e l'arcano si svela: di fronte a noi il terreno si spacca, letteralmente, e questa enorme fenditura nasconde un profondo letto di un antico fiume. E' assurdo, la spaccatura è enorme ma la vediamo solo quando ci siamo ormai vicini. Nel deserto nulla è ciò che sembra.

    Assan Sharif ferma tutte le auto, ma fa cenno a noi di scendere: la cosa mi puzza! E come comincio a fare i primi metri di quella ripida pietraia in discesa, comincia a puzzare ancora di più! E come, poco dopo, scoprirò che dovrò rifarla in salita, in pratica emette un tanfo pestilenziale di Transalp distrutta!

    Arriviamo sul fondo di questa valle incantata, ed ancora mi stupisco di come questo luogo nasconde queste perle, attraverso le quali gli Uomini del Deserto possono vivere in questo ambiente inospitale. Ed infatti anche qui ci sono un sacco di graffiti, tra i quali un bue con due corna enormi veramente bello.

    La risalita della pietraia è piuttosto dura, ma alla fine ce la facciamo tutti, salvo un punto in cui ogni moto praticamente si pianta. Un video con la telecamera di Mario ci permetterà, a casa, di vedere la nostra impresa dall'esterne, anche se come al solito, in video ed in foto, le rocce sembrano più piccole e le pendenze più lievi.

    Si riparte, durante la strada, che questa volta punta dritta verso le dune del Murzuq, lontano vedo i ciuffi di Erba Cammello che indicano lo scorrere di un fiume sotterraneo, proprio parallelo ai confini dell'Erg, metto la moto di traverso e le faccio una foto, poichè il panorama è veramente spettacolare. Come riparto scopro comunque che, vista l'ora, ci fermiamo proprio in mezzo ai cespugli per mangiare. La sabbia soffice spaccata dalle tracce delle auto è terribile: io sto in piedi per miracolo, ma non puoi distrarti un attimo, non c'è perdono. Lo scopre Michele che appoggia in un secondo la moto al suolo, davanti a Mario che se la ride alla grande!
    In mezzo ai cespugli lo spettacolo è maestoso, il fiume continua da orizzonte ad orizzonte, dietro di noi lontane il velo nero delle pietraie, davanti a noi i cordoni misteriori di dune sembrano mormorare tra loro.

    Mentre ci riposiamo, i Tuareg ci fanno mangiare un pezzo minuscolo, circa 3/4 mm, di rametto di una pianta che loro raccolgono in abbondanza. E' una pianta medicinale, che fa bene: il suo sapore, nonostante l'esiguità della porzione, è fortissimo, leggermente amaro; a me piace, ad altri no. I Tuareg ci spiegano che cresce in pochissimi posti, e per questo loro la raccolgono. Dopo pasto la intingeranno nel Thè che ormai ci preparano abitualmente, ed il sapore è ottimo. Io ne raccolgo un po' di rametti che tutt'ora a casa intingo saltuariamente nel thé. E' incredibile la durata di questa pianta, che a distanza di giorni e giorni è ancora morbida.
    Lo spettacolo di Mario che si fa la barba è fantastico! Fiky lo guarda con invidia, avendo lui dimenticato il rasoio a casa.
    Si riparte subito finito il pranzo, le dune sono sempre più vicine.

    Ora che è finito, posso dire che le guide sono state molto brave, creando un giro variegato, che in molti punti andava a zig-zag, permettendoci di vedere di continuo terreni nuovi, ma soprattutto di ambientarci come stile di guida. La difficoltà infatti era crescente, giorno dopo giorno, percorso dopo percorso, senza mai esagerare. A tratti noi motociclisti ci inoltriamo in prossimità delle dune, provando qualche salita sempre più ripida, sempre più alta, correndo lungo i cordoni di sabbia. Ma le vetture si stanno allontanando, e ci immettiamo in un altro plateau infinito, che poi diventa pietroso, molto pietroso, sempre di più. Questa volta a complicare la situazione ci sono anche salite e discese, il tutto tra grosse pietre acuminate e la sabbia, che adesso è sottilissima e comincia a farsi sentire nella guida, che diventa complessa. Qui faccio la mia prima insabbiatura, in una lingua di sabbia contornate da rocce troppe acuminate per poter essere passate evitando la traccia delle vettura. E il problema nel mio caso è duplice: l'insabbiatura blocca la moto di colpo, e non sei preparato a gestire oltre 2 quintali che si piegano. Appoggio la moto a terra, stremato. Riparto, intanto sono arrivati gli altri, saliamo ancora per trovarci in sommità di un monte: dobbiamo scendere, circumnavigare un altro monticello e andare dall'altra parte, dove la polvere alzata dalle auto ci fa da indicatore della loro posizione.

    Gli altri decidono di attraversare diretti la collina pietrosa, io no: non ho dietro la camera d'aria rinforzata (un'altra cagata fattami dal gommista, oltre ai fermacopertoni), ed ho paura di forare. Farò bene, come mi dirà Michele quelle non erano pietre, erano lame affilate in cui loro per miracolo non hanno forato.
    Passiamo veloci lungo la pista per due o tre km, quindi facciamo una piccola salita pietrosa molto divertente e ci troviamo su un altopiano di pietre da cui la vista è mozzafiato.

    Tra le rocce una lucertola corre veloce, più di Assan che tenta di afferrarla. Scendiamo tra i massi, rischiando di spaccarci l'osso del collo, per ammirare in una grotta altri graffiti. La valle di fronte a noi era un tempo piena di acqua, animali, vegetazione, e seduto nella caverna mi immagino la vita di questi popoli del passato.
    Ripartiamo, la sabbia si fa sempre più sottile e frequente, ed io, sinceramente, lancio qualche maledizione per non avere un monocilindrico leggero sotto le chiappe. Mi tuffo in ogni pietraia che vedo.

    In uno Wadi pieno di erba cammello vedo le auto che si fermano, le ombre sono ormai molto lunghe: arrivo vicino a loro, parcheggio in stile desertico, e finalmente mi riposo. E' stata una giornata stancante. Dormiremo lì, nel Massak Settafet (fiume nero, Assan mi dice che "di là" c'è anche il fiume bianco), tra gli arbusti, riparati dal vento, in un paesaggio mozzafiato. Continuerei così tutta la vita.

    Aroun ha già scaldato l'acqua, e mi siedo con gli altri a bere un ottimo thè e a mangiare qualche biscotto.
    Questa volta, avendo fatto molto sabbia ed essendomi trovato spesso in scia degli altri, controllerò il filtro dell'aria: operazione allucinante da fare sulla mia Transalp, che farà ovviamente divertire gli altri, molto meno me! Finirò col buio, la torcia sulla fronte, bestemmie di varia natura religiosa tra le labbra.
    Scopro che Michele mi ha fottuto il posto nella tenda con Fiky, stanco del russare di Cielo; Fiky è ovviamente contento, stanco del mio russare! Insomma, la tenda "Taglialegna" da questa sera in poi sarà temuta, ed esiliata in posizioni sempre più lontane dal campo!
    Una bella cena, tante risate attorno al fuoco, il cielo stellato sopra di me, il deserto del Sahara tutt'attorno...

    Venerdì 19 dicembre

    Si riparte. Uscire dalle sabbia mobili di questo Wadi è per me già un'impresa durissima, terribile da farsi al mattino, come prima prova. Ripartiamo per un plateau gigantesco di sabbia con più presa, largo svariati km e delimitati da catene di roccia che sembrano realmente una costa. Ne ho poi la certezza quando le catene, a destra e a sinistra, smettono di colpo, e di fronte a noi il plateau continua piatto ed arido: questo era, in epoche remote, un enorme fiume, che qui sfociava. Dove, in un mare? In un lago, forse? Alla mia destra e alla mia sinistra osservo l'allungarsi verso l'orizzonte di questo antico bacino.

    Ripartiamo correndo liberi nel plateau, e ritrovo le sensazioni di libertà nei primi giorni: lascio che le auto traccino la direzione, mentre io mi muovo zigzagando in questo spazio illimitato. All'orizzonte compare una torre, una stazione petrolifera: è il primo segno di "civiltà" da 2 giorni, e sinceramente non mi piace per niente. Ci fermiamo, mentre le auto vanno a fare il pieno di gasolio! Un distributore... in mezzo al deserto! Lontane noto di nuovo ricompare dalla foschia che leggera si dirada le dune dell'Idhan Murzuq, che da un po' non vedevamo. Osservo Mulhai che si siede sul paraurti del suo Pick-Up ad osservare il deserto sabbioso lontano. Cosa pensa quell'uomo, cosa pensa un uomo così quando vede questo tipo di territorio? E' veramente possibile scegliere di viverci? Ha senso? Non ha senso, in realtà, alcuna di queste domande. Mi metto a sedere, accendo una sigaretta e lo imito, guardando l'orizzonte, ma il mio cervello "occidentale" mi confonde con una massa infinita di pensieri. Ho tanto studiato filosofia all'università, tanti trattati per capire origine, natura, del fantomatico nichilismo, quando basta vivere qualche giorno nel deserto per comprenderne in un colpo solo l'essenza, senza mediazioni. "Vasta, muta e concisa enciclopedia del nichilismo", come scrive Pep Subiròs.
    Ritornano le auto, e riprendiamo la nostra corsa verso... cosa? Nulla, verso il nulla. Viaggiamo verso il nulla. Il deserto è nulla: ma il suo bello è che, nonostante questo, "qualcosa risplende". Ha ragione il Piccolo Principe. Siamo anche noi, in questi giorni, Piccoli Principi, venuti da un altro mondo e troviamo qui il senso della nostra peregrinazione.
    Ed a questo punto, circa, accade il dramma: un terreno leggermente pietroso in cui la mia moto si trova pienamente a suo agio. Basta accelerare un po' e schiacciare una pedana, e lei reagisce. Bellissimo, velocità incredibili: ogni tanto una dunetta concede un piccolo salto, una piccola impennata. Mi ritrovo molto a mio agio col suo nuovo assetto. Fatto sta che derapa di qua, derapa di là, terza marcia piena, faccio un saltino ma subito dopo trovo della sabbia soffice. Forse non apro bene il gas, forse ero un po' sbilanciato: il davanti si pianta nella sabbia, io resisto alla prima sbandata, ma non alla seconda. Mi trovo a rotolare, sento il rumore del motore, ho paura che la moto mi investa, apro gli occhi ma vedo tutto giallo. Mi rotolo ancora una volta, e mi trovo steso per terra mentre l'ultima sabbia cade al suolo. Mi alzo, la spalla destra mi fa un male incredibile. Spengo la moto, che giace al suolo, la sabbia tutta smossa. Arrivano gli altri, impauriti. Cielo era dietro di me e mi dice che di colpo ha visto una nuvola di sabbia sollevarsi ed io non c'ero più, poi ha visto me e la moto stesi. Mi muovo un po', ho anche una botta al ginocchio, ma la spalla mi fa un sacco di male. Mi gira un po' la testa, provo a muovere il braccio e fortunatamente si muove; è un dolore più muscolare. Mi siedo al suolo, bevo un po' di acqua, mi scrollo un po' di sabbia di dosso, e osservo la moto. Il parabrezza è venuto via, ma non si è rotto fortunatamente. Per il resto sembra tutto ok. Gli altri me l'hanno rimessa dritta. La benzina caduta lascia un odore acre nell'aria. Bestemmio: questa botta alla spalla pian piano fa meno male, ma so che me la porterò avanti a lungo e mi rovinerà in parte il viaggio. Comunque, finire così dopo un gran volo a circa 70/80 km/h non è male, anzi!
    Finito lo spevento per tutti, cominciano a far la loro comparsa le inevitabili prese per il culo. Inevitabili, e comunque anche apprezzata. I Tuareg sono i più impensieriti, ma quando mi vedono muovermi bene e ridere cominciano a ridere a loro volta. "Vitesse c'est dangereux", mi ripete Assan, mentre Aroun mi parla in francese indicandomi il braccio, e Mulhai mi osserva silenzioso ma sollevato. Sarà, fortunatamente, l'unica caduta degna di nota di tutti noi.
    Si riparte. Ci avviciniamo sempre più alle dune, e per la prima volta vedo, dopo una cunetta, il culo dell'auto piegarsi in avanti: la pendenza è elevata. Ci arrivo, la faccio tranquillamente, anche se in discesa, dove devi tenerti indietro, la spalla mi fa dannare. Subito dopo le auto si fermano, c'è un'enorme duna non troppo ripida; gli altri salgono, io sul momento non me la sento, ma poi dico "Fanculo", stringo i denti, e parto. La Transalp mi stupirà, salendo fino in cima. Arrivo, gli altri mi applaudono, spengo la moto e la parcheggio insabbiandola, quindi mi massaggio la spalla dolorante. Mi giro, ed ammiro il maestoso panorama che mi si mostra. Inutile negarlo, hanno ragione i Tuareg: "Il deserto è terribile e spietato, ma chi lo conosce è costretto a ritornarci". Si, io qui ritornerò. Spesso. Devo tornarci.

    Cicca di rito, quindi scendo e subito mi spalmo un bel po' di Lasonil: ora riesco a muovere un po' di più il braccio, sicuramente non c'è niente di rotto, ma il dolore è forte, soprattutto quando sforzo anche solo un po' i muscoli. Mi rivesto e cammino verso la duna, risalendola un po'. Assan che incrocio per la strada mi fa vedere un pezzo di uovo di struzzo: "Ma qui c'erano gli struzzi?" gli chiedo, e lui ridendo "Si, duemila anni fa". Incredibile. Mentre Aroun prepara il pranzo salgo ancora un po', quindi mi appoggio stanco alla sabbia soffice e mi lascio coccolare dalla duna e dal vento. Dopo pochi minuti, sento dei rumori alle mie spalle, e vedo Marta e Lara che mi corrono addosso! Fortunatamente le due piccole pesti hanno pietà e all'ultimo momento deviano la corsa. Mi si fermano accanto, Lara mi invita a giocare a tria sulla sabbia, ed io vinco! Sono indubbiamente il miglior giocatore di tria del mondo! Peccato che sarà la mia unica vittoria... Poi giochiamo all'impiccato: non ci giocherò da quando avevo... la loro età! Quindi circa vent'anni! Sigh, tempo che scorri, ma devi proprio farlo? Lara scrive una parola, lunghissima, che poi nel corso del gioco allunga o accorcia a piacimento! Piccola imbrogliona. Alla fine, però, la frego, indovinandola: era "Ambarabàciccìcoccò". Sono il miglior giocare d'impiccato del mondo! In questo modo comincia il mio sodalizio con queste due terribile bambine: il bambino che ancora sono non poteva resistere!
    Dopo pranzo ripartiamo, questa volta siamo ancora più emozionati poiché ci stiamo per addentrare nel Tadrart Akakus, un massiccio montuoso, come lo definirò poi io, "in decomposizione".
    Come ha detto Mighe, che quando scrive i report è fantastico: L'Akakus non esiste. L’Akakus è un luogo della mente, è un mare assurdo dove onde di sabbia d’oro e di rame sollevano incredibili spruzzi di roccia nera.
    Nell'Akakus non entri, è lui che di colpo di circonda, e in men che non si dica, dalle sabbie dorate delle dune, dai plateau interminabili, ti trovi in mezzo a un panorama indescrivibile. Un massiccio montuoso sgretolato da mani immense, in rovina lenta, ere ed ere lo hanno trasformato in un paesaggio irreale, essenza di ogni incubo e di ogni sogno: non c'è il tempo, nell'Akakus, di farsi domande: non c'è tempo in generale. Montagne nere che si disgregano, enorme ammassi di pietre nere, sabbia color dell'oro, giochi d'equilibrio impossibili, pare che eccetto per i nostri mezzi la gravità non valga.

    Sapevo che l'Akakus sarebbe stato bello, ma non pensavo in questo grado. E' maestoso. La sensazione potrebbe essere paragonabile a quella di trovarsi di colpo dentro una città, costruita con architettura a noi completamente estranee, in rovina, abitata migliaia di anni fa, da un popolo che è poi scomparso, neppure umano. Se vedessi le rovine di Atlantide, ad esempio, proverei lo stesso sentimento. Anzi, leggermente inferiore, perché poi ti rendi conto che qui l'unico artefice è la casualità di eventi naturali, ed allora sei ancora più esterefatto.
    Un arco alto 80 o più metri non può esistere nella realtà. Nell'Akakus invece esiste. Ma l'Akakus non è prettamente reale.

    Per il resto della giornata vagheremo in mezzo a queste rovine come turisti in un museo. Ogni angolo nasconde un panorama diverso, cela geometrie impossibili, visioni ultraterrene. L'Akakus è imponente, maestoso, terribile, solenne. E' un monumento eretto al pianeta. La sabbia gialla scende da alcuni picchi, o forse li risale, o forse sono semplicemente i picchi che sprofondano in questo mare. L'Akakus lascia tutti quanti noi senza parole.

    Dietro un'altura, una conca tra due pareti rocciose racchiude una lingua di sabbia morbida che i Tuareg decidono sarà il nostro campo. Penso che mai luogo fu più appropriato per piantare la propria tenda.

    Quando il sole cala, le alture nere scompaiono alla nostra vista, e le loro sagome sembrano figure incise nell'immensa Via Lattea.
    Quella notte mi porrò un interrogativo inquietante: dopo cena, mi allontano, carta igienica in mano, nel buio della notte per andare a... dai, si capisce. Attorno a noi le mura dell'Akakus riservano poco spazio ad angolini sabbiosi in cui scavare la propria "buca". Sono dunque costretto a camminare un bel po'. Pila in fronte, individuo tra le rocce una cavità sabbiosa: mi giro, le luci del campo non si vedono. "Ok, qui può andare bene". Mentre sono tutto accoccolato, mi pongo un interrogativo: se ora le pile della mia torcia finiscono, sarei in grado di tornare indietro? La strada è pressoché dritta, ma ci sono molti massi. Con le stelle mi oriento, le sagome scure laggiù sono le pareti di roccia del nostro angolino nell'Akakus. Ma la strada non è dritta, dovrei camminare pian piano con le braccia stese, per non andare a sbattere su qualche masso, e piano, attento a non inciampare o finire in qualche avvallamento della sabbia. Da quella notte, sarò solito portare con me delle pile di scorta!

    Sabato 20 dicembre

    Ci svegliamo presto, con le voci dei nostri amici Tuareg che stanno già preparando la colazione e ripulendo il campo. Il thè caldo con degli ottimi biscotti al cioccolato è una manna. Una fetta di pane con la marmellata di fichi, un altro thè, qualche altro biscotto, e siamo pronti. Sbaracchiamo il campo, ripulendo dai nostri rifiuti. Facciamo benza dal taciturno Mulhai, e in sella si parte per un'altra grande avventura!
    L'Akakus è un sito protetto dall'Unesco, ringraziando il cielo. Ogni suo angolo, dove sono stati ritrovato graffiti o pitture, è segnalato da un cartello apposito e, spesso, anche recintato con foglie di palma; ottima scelta, che non compromette con cavi d'acciaio o plastiche la visione del panorama complessivo. Dopo alcuni graffiti, vediamo per la prima volta, scortati dall'esperto Assan Sharif, i dipinti: dal buio del tempo emergono quasi magicamente, ombre rosse sulle rocce. Dipinti con ocra prodotta con elementi naturali, la sostanza grazie a condizioni climatiche uniche si è "fusa" con la roccia, rimanendo per millenni a testimonianza dei pensieri, forse i sogni, o messaggi comunicativi, di persone, esseri umani come noi, solo distanti nel tempo millenni e millenni.
    Sono opere più recenti dei graffiti, ma forse ancora più sconvolgenti perché non ci sono più solo elementi singoli, ma vedremo anche vere e proprie ambientazioni: un villaggio, la caccia, una guerra fra tribù persino. Sono impressionanti. Io rimango completamente disorientato in questo sali scendi dalla moto: vedi una pittura, risali in moto meditabondo, arrivi dopo pochi minuti ad un'altra pittura che ancora stai pensando a quella di prima, e questa si aggiunge alla precedenti, aumenta la mole di pensieri, e col caldo che quest'oggi è fortissimo ti trovi completamente disorientato.
    In una volta troviamo anche un "braciere" preistorico: un profondo - quasi un metro - foro nella roccia viva, largo varie decine di centimetri, levigato sulle superfici interne: come hanno fatto a scavarlo? La roccia è durissima: doveva essere una località di vita stabile, non avrebbe senso fare un lavoro simile per solo qualche mese di ferma. Ma il dipinto assolutamente più impressionante che vedrò sarà lì vicino: su una parete decine di mani, perlopiù più piccole delle mie, ma tutte differenti. Sono tantissime. Devono essersi messi l'ocra sulla mani e le hanno stampate, perché ci sono spazi senza colore dove la mano non tocca, sulle pieghe delle falangi e l'attaccatura delle dita. Alcune sono più marcate, altre meno, alcune piccole, altre tozze, altre affusolate, altre spalancate, altre più socchiuse. Non sono semplici dipinti, sono la loro firma. E' impossibile resistere alla tentazione di appoggiare la propria a lato di una di essere, e sentirsi partecipe della vita di quelle antiche popolazione. E' come se la roccia vibrasse, parlasse, come se fosse viva, come se fosse uno specchio.

    Su alcune scene di caccia è perfettamente riconoscibile il fido amico dell'essere umano: un cane, vicino al suo padrone, che armato caccia dei bufali.

    Ripartiamo: stiamo attraversando una lingua di sabbia con a sinistra dei picchi rocciosi che racchiudono una enorme duna: i miei 3 compari motociclisti si buttano su quella duna, io seguo le vetture. Passo i picchi, e dalla parte opposta vedo scendere i miei compari: prima Fiky, poi Mighe, poi... e Cielo? Non c'è. I due vanno avanti, io rallento, ma Cielo non arriva. Mighe si accorge che sono fermo, e capisce che sto attendendo Cielo che non arriva. Mighe torna indietro, gli dico che Cielo manca, lui dice che gli era dietro. Torniamo in prossimità della duna, ma di Cielo non c'è traccia. Forse è passato per primo, ed è già avanti? Impossibile, io l'avrei visto; e in quel momento circa un km più a sinistra, in uno spazzo sabbioso oltre altri picchi di roccia nera, intravediamo Cielo che corre come un matto: proviamo a chiamarlo, ma è troppo distante, il mio clacson non funziona per la sabbia, e così acceleriamo per raggiungerlo. Ma tra noi e lui c'è un picco di roccia, lui lo passa a sinistra, noi a destra; e come lo passiamo vediamo che c'è una struttura nel mezzo del piano, e le auto sono ferme lì. Fortunatamente Cielo le ha viste, e lo rincontriamo poco dopo: ci dice che ad un certo punto ha provato a fare una salita, ma era impossibile, è tornato indietro e non c'era più nessuno. Come poi sia passato dalla mia destra alla mia sinistra non lo sapremo mai! Nel deserto è facilissimo perdersi, ancora di più nell'Akakus. Ne avremo in seguito altre due prove.
    Intanto, ci guardiamo in giro: c'è un pozzo, con una costruzione in cemento dove vive un Tuareg. Un vecchio motore "Detroit Diesel" dà un non so che di strano a tutta la scena. Quando poi veniamo raggiunti da una macchina della polizia, in pieno deserto, la scena diventa veramente irreale: il nulla, uno che vive nel nulla, una comitiva di turisti e dei poliziotti tutti lì contemporaneamente, per caso. Poco dopo all'orizzonte compare anche un Tuareg con 4 cammelli: scena ancora più assurda! Siamo in tanti, in troppi, tenendo conto che siamo nel deserto! Il cammelliere arriva chissà da dove, e poco dopo se ne riparte chissà per dove. Che gente misteriosa e fantastica.

    Dietro la costruzione c'è un tubo piantato nel terreno: me lo indica Michele, e mi fa cenno di ascoltare. Di colpo sento un flauto! Sul tubo qualcuno ha praticato dei fori, e il vento che vi entra da sopra crea inquietanti melodie, assurdamente anche originali. E' poesia materializzata. E' assurda bellezza. Insensato splendore di una regione che, in effetti, in ogni angolo ti dimostra che il reale è oltre. Il reale è oltre l'Akakus. Il reale è oltre il deserto, perché il reale è troppo piccolo per contenerlo.
    Si riparte per visitare altri siti con dipinti e graffiti. Nel corso della giornata abbiamo varie volte attraversato righe di erba cammello con ciuffi belli alti: le auto si buttano per prime, coi Tuareg che indicano la strada, noi moto subito dopo. Poiché in questa infida sabbia io non posso assolutamente stare sulle loro scie, faccio lo slalom tra i ciuffi d'erba seguendo poco distante la direzione delle auto. In un punto simile, le auto entrano alla mia sinistra; davanti a me c'è Michele, qualche metro ci separa. Lui un ciuffo lo lascia a destra, io a sinistra; un ciuffo, due ciuffi, tre ciuffi, e non vedo più nessuno! Avanzo un po' ma non vedo nè Michele nè le auto: accelero, mi sposto un po' e trovo delle tracce che però, dopo qualche metro, le riconosco come troppo vecchie per essere le nostre. Spengo il motore, ma non c'è nessun suono: Mario ci aveva detto che, se ci fossimo persi, avremmo dovuto fermarci, tornare eventualmente indietro solo se le nostre tracce sono facilmente riconoscibili, e cominciare ad aspettare. Decido quindi di andare ancora un po' più a sinistra, memorizzando la mia posizione attuale per poter tornare indietro, e dopo qualche minuto trovo le tracce che, seguite, mi portano ad un altro Wadi dove gli altri mi stanno aspettando. Il deserto non perdona.
    Durante un'altra visita ai graffiti saliamo in un punto abbastanza alto per consentirci di riconoscere, nella valle, il percorso dei fiumi sotterranei disseminati in superficie da rigogliosi ciuffi di erba.

    La visione spettacolare. Lì nelle vicinanze abbiamo anche visitato un sito in cui, ci dice un cartello, è stata ritrovata l'unica mummia del Sahara: l'ha ritrovata, tra l'altro, un italiano, il maggior conoscitore e in parte anche definibile scopritore dell'Akakus. il prof. Mori.
    Assan Sharif ci dice che ora andiamo verso un accampamento di Tuareg: avevo letto nella guida che infatti alcuni Tuareg, oppostisi all'urbanizzazione "richiesta" da Gheddafi, sono rimasti nell'Akakus. Non pensavo li avremmo visti, ma probabilmente le nostre guide Tuareg li conoscono ed approfittano dell'occasione per passare a salutarli e, scopriremo poi, portargli qualche medicina.
    Arriviamo in un'ansa tra i monti, ed alcune baracche ricoperte con foglie sono il villaggio in cui vivono queste persone. Attorno non c'è niente. Neppure lì c'è niente. Cosa mangiano, cosa fanno durante la giornata, cosa pensano quando si svegliano, quando si addormentano. E' un concetto di "vivere" a noi completamente estraneo, per questo anche si sottrae a qualsiasi giudizio. Mentre scendiamo dalle foto, un Tuareg si avvicina alle nostre guide, che ci fanno segno di oltrepassare un filo spinato appeso attorno al campo, forse più per i turisti che per eventuali animali pericolosi. Alla nostra sinistra vedo un Tuareg molto vecchio che, con passi lenti, aiutandosi con un bastone, emerge dalle sabbie. Avanza per un po', poi si ferma, e si siede a terra a gambe incrociate. Assan ci dice di avvicinarci, e tutti assieme lo facciamo, lo salutiamo, e silenziosi ci sediamo tutti attorno a lui. E' molto vecchio, ma non ha rughe: quando gli chiediamo quando anni ha, Sharif traduce la sua risposta con un'espressione che ci lascerà sbalorditi: "He doesn't know". Non sa quando è nato. Ma in effetti, a cosa serve saperlo?
    Quando sente che siamo italiani, scopriamo che lui è stato l'aiutante del Prof. Mori stesso, ce lo dice ridendo! Credergli? E perché no? E' stato lui ad indicargli la mummia stessa! Tornato a casa, scoprirò navigando su internet che è vero, e che ha anche un album di fotografie di lui assieme a Mori. Non gli faccio nessuna foto, non avrebbe senso. Prima di congedarci Assan ci chiede se qualcuno ha medicine per l'asma da dargli, ma nessuno di noi le ha.
    Poco più avanti troviamo un arco con varie colonne interne splendido, magistralmente scolpito dalla natura nel corso dei secoli.

    La visione è rovinata dai primi turisti che incrociamo in questo nostro viaggio: un gruppo di Belgi, con 3 moto.
    Io li saluto, quindi me ne resto vicino alla "scultura": è impressionante. All'interno dell'arco la roccia è modellata in stranissime forse, a tratti sembra quasi spugna stritolata. E' un capolavoro che mi lascia esterefatto. Esiste dunque un Dio? Queste non sono cose che può creare il semplice caso. Si, lo ammetto, ho avuto crisi religiose! Ma sono passate, ovviamente...

    Alcune pitture sono enormi: racconta forse scene di vita di un'intera popolazione, avvenimenti particolari, o magari sono pitture sovrapposte, chi lo sa. Certo è che sono quasi spaventose, tanto sono distanti nel tempo e ben mantenute. C'è timore riverenziale di fronte a testimonianze simili.

    Ci fermiamo a fare una sosta in uno spiazzo dove c'è una lingua di sabbia che sale fino in cima a dei picchi rocciosi: facciamo qualche giro in moto scalandola, è altissima. Io quindi scendo, e faccio una foto al panorama che è veramente mozzafiato.

    Le auto ripartono, i miei 3 compari non si vedono. Lascio che le auto vadano un po' avanti, e spariscono alla mia destra, in mezzo alle rocce. Torno indietro, ma non trovo i miei compari: allora penso siano già andati dall'altra parte, ridiscendendo la duna dal lato opposto. Seguo le tracce delle auto, ma non capisco mica per dove sono passati: oltrepasso delle rocce facendo un gradino in discesa allucinante, li vedo più distanti, ma non vedo le moto. Mario sta tornando indietro, gli chiedo se ha visto gli altri e mi dice di no, allora lo avviso che torno indietro a cercarli. Faccio questa volta la strada giusta, evitando la pietraia che prima mi ha fatto bestemmiare alla grande, giro per un po', e vedo i miei compari in cima ad una duna. Gli faccio cenno di venire, e ripartiamo.
    Ricominciamo a fare bellissime pietraie: in una di questa ci fermiamo. CI sono un sacco di sassi dritti, e pensiamo subito a qualche cosa fatta dai turisti. In effetti è così, ma comunque questi sassi sono strani. Ce lo diciamo io e Michele, ed io dico "Sembrano legna". Ed in effetti è proprio così: è legno d'albero pietrificato! E' riconoscibilissima la corteccia, ed alcune sezione hanno ancora l'impronta degli anelli di crescita! Incredibile, un bosco antico forse quanto i dipinti, o di più?

    Ma il sole scende ancora, e noi invece non vorremmo scendesse mai più! Dietro ad una roccia le guide ci indicano il nostro prossimo campo: una parete di roccia crea una conca ricoperta di sabbia, ed al centro un enorme ammasso roccioso ha al centro una cavità, un foro. La sabbia si arrampica su per la parete di roccia. Nei pressi dell'ammasso roccioso, invece, forma come una trincea. Io parcheggio la moto stremato dalla fatica della giornata nell'avvallamento della trincea, ai piedi dell'arco, mentre i miei 3 amici si arrampicano sulla duna, verso il cielo.
    Montiamo le tende sul bordo della trincea, mentre sotto i Tuareg fanno il fuoco. Quella sera loro dormiranno all'aperto, protetti dal vento dall'arco e dalla sabbia. Ma cosa li protegge dal freddo?
    A cena Assan Sharif ci prepara il pane Tuareg: avevo notato che Mulhai Sharif teneva il fuoco più alimentato del solito, e soprattutto le braci distese su una superficie più ampia. In una terrina Sharif prepara prepara l'impasto di farina e sale. Quando è pronto, lui e Mulhai tolgono le braci dalla sabbia, tolgono anche un po' di sabbia, vi stendono l'impasto sopra, ricoprono di sabbia e di braci. Il pane resterà lì un'ora circa, nel frattempo noi mangiamo. Dopo cena, tutti seduti attorno al fuoco come ormai è consuetudine fare, Sharif dissotterra il pane, e con un coltello lo ripulisce abilmente dalla sabbia. Ne taglia dei pezzi e ce li porge. Col thè è ottimo: sarà anche l'influenza psicologica, sicuramente. Fatto sta che è ottimo. E soprattutto, non trovo neppure un granello di sabbia. Questi Tuareg ne sanno veramente 1.000 più del diavolo!
    Dopo cena ci ritroviamo tutti quanti, al solito, davanti al fuoco: l'instancabile Aroun scrive i nostri nomi sulla sabbia e canta una canzone dedicando a ciascuno di noi una strofa. C'è poco da descrivere, sono emozioni che non possono essere verbalizzate.

    Domenica 21 dicembre

    Ci svegliamo infreddoliti, io più di tutti, ed un po' triste: oggi è l'ultimo nostro giorno nel Tadrart Akakus.
    L'alba crea sfumature di colori impossibili da concepire nel mondo di tutti i giorni.

    Facciamo colazione, finendo con la marmellata il pane Tuareg, che tra l'altro è ancora morbido, e poi si parte per un'altra giornata nell'Akakus.
    Tra un dipinto e l'altro, ci addentriamo in una zona diversa: la sabbia è molta di più, i picchi più bassi, più sgretolati. Dev'essere una zona molto più antica del massiccio montuoso. Amo la mia moto, che mi ha portato fino a questo posto incantato.

    Su alcune grotte il lavoro millenario del vento, della sabbia, forse dell'acqua, crea sculture magistrali. Incredibili.

    Geometrie assurde, gravità sconvolta: mi sento come dentro ad un racconto di Lovecraft.

    Alcune tracce lasciano intendere che a qualche altro turista non è andata bene come a noi.

    I picchi sono sempre più erosi, più sgretolati, la sabbia e i ciottoli sempre più diffusi: sembrano guglie di una cattedrale gotica sommersa, l'atmosfera dell'omonimo brano di Debussy è perfetta.

    Ha ragione Michele: l'Akakus non esiste, non può esistere. Il panorama offertoci durante la sosta pranzo ne è la conferma decisiva.

    Finito il pranzo, usciamo tristi dal massiccio montuoso. Akakus, tornerò, ti rivedrò, non posso vivere senza tornare da te. Lascio un pezzo di animo tra quelle rocce.
    Le guglie di questa città fantasma si allontanano sempre più, sabbia, ciotoli, Wadi, ne passiamo tra l'altro uno che porta i segni evidenti di una piena non troppo distante nel tempo: la terra è scavata, i ciuffi di erba cammello alti, con una profonda base di terra erosa dall'inconfondibile fluire di acque impetuose. Un altro wadi, quindi una serie di dunette di 6/7 metri molto belle. Le facciamo tutte, anch'io: oggi la spalla mi fa meno male, fortunatamente. Ce n'è una particolarmente ripida: Michele la risale prima di me. Io salgo, arrivo in cima, la sommità affilata come una lama; la moto si inclina in avanti, e in quel momento vedo Michele alla base che cade. La mia moto comincia a fare la discesa, lì non posso proprio fermarmi, ma Michele caduto si rialza e tenendosi un piede dolorante si gira e si mette propriodi fronte alla mia direzione d'arrivo. Urlo "Via!", riesco un po' a girare la moto, e lo evito: abbiamo sfiorato la tragedia! Lo aiuto a rialzare il Dominator: ha preso una botta alla gamba, e gli fa male. Le auto si allontanano dietro le dune, non si sono accorte di nulla. Dico a Cielo e Fiky di salire su una duna ed osservare la direzione. Dopo qualche minuto Michele si riprende, rifacciamo una duna e ci immettiamo nel plateau, lui davanti, io invece gli sto dietro per vedere se ha problemi. Fortunatamente, nulla di grave, ma anche lui entrerà con oggi nel magnifico mondo di Lasonil!
    Facciamo un altro wadi, nel frattempo abbiamo raggiunto le auto, ancora un po' di erba cammello, quindi vediamo delle baracche e delle auto. Mai visione fu più triste! Ancora qualche baracca, un po' di fango, e tristemente, dopo 5 giorni, sotto i nostro tasselli ritroviamo l'asfalto. Andiamo in un distributore a fare il pieno di benzina alle moto ed alle riserve. Mando un sms a casa e ad alcuni amici: "Dopo 5 giorni di deserto posso dire che non mi mancate neanche un po'". Ridicolo: ma neanche tanto falso, del resto.
    Ripartiamo, si fa sera. Teoricamente, ci dicono, dovevamo tornare al campeggio di Germa, ma è troppo distante. Lì vicino c'è un cordone di dune: le valicheremo, e passeremo la notte ancora una volta all'addiaccio, protetto dal mio amato deserto di sabbia. Usciamo dall'asfalto, e dopo un po' le vediamo. Assan ci dice di passare una duna di 5 metri circa. Dopo quelle già fatte, pare una cazzata. Gli altri 3 motociclisti passano tranquilli, arrivo io, comincio a fare la salita... e la moto sprofonda nella sabbia fino alle forcelle! Provo a dare un'accelerata, ma faccio solo una gran fontana. Spaventoso! Assan si mette a ridere, come tutti, del resto; e del resto, rido anch'io! La moto è letteralmente sprofondata in corsa: è un tipo di sabbia particolarmente sottile e leggera che i giorni seguenti, nell'Ubari, tra i laghi di Mandara, mi farà dannare. Presa con troppa semplicità, come la moto ha cominciato a cedere è bastata quel po' di gas in più per farla sprofondare. Fossi stato in terza, la coppia me l'avrebbe spinta su con più tranquillità.
    Disinsabbiata la moto, riparto, e raggiungo gli altri, dove faremo il campo.
    Parcheggio la moto, sono sconvolto. Su questa sabbia la mia moto è quasi inguidabile: devi dare gas di continuo, e tenerla in velocità. Mio dio, ma se i due giorni seguenti saranno così sarà un massacro! Il piano è di fare 200 km d'asfalto domattina, quindi avremo 200 km di sabbia per il giro dei laghi, domani e dopodomani.
    Evito di pensarci, scalando una duna e andando ad ammirare il panorama circostante: l'asfalto, distante poche centinaia di metri, nella mente è invece già nell'oblio.

    Comincia la lunga fase del tramonto: qui, il sole comincia a tingere il cielo di colori maestosi molto prima di sprofondare sottoterra. Ma quando deve scomparire, lo fa d'improvviso. Comincio a scattare varie foto ai vari momenti del crepuscolo, mentre il vento solleva un po' di sabbia dalle creste di queste splendide dune dorate. E' il più bel tramonto che abbia mai visto.

    Vengo raggiunto da Marta: giochiamo un po' sulla sabbia, finché io dico "Scendiamo là sotto", intendendo il versante opposto della duna. Faccio due passi, e la gamba mi sprofonda fino al ginocchio! Il pensiero va immediatamente alla moto: come farà lei?
    E' impressionante il comportamento di questo tipo di sabbia: vicino alla cresta della duna è simile all'acqua, se passi un dito sulla sua superficie comincia a colare come sangue da una ferita, e la spaccatura comincia a salire in un movimento interminabile, finché non raggiunge la cresta, affilatissima.
    Il vento solleva un po' di sabbia dalla cima delle dune e la porta lontano, chissà dove. Queste dune probabilmente si muovono, con un passo lento, impossibile a vedersi per l'occhio umano, per l'infimo organo di questo piccolo essere mortale.

    Il tramonto prosegue, tingendo le dune di variazioni di giallo sempre diverse. Lontano vedo una delle nostre guide: ha attraversato tutto il cordone di dune, quindi è andato in cima ad una, e osserva silenzioso l'immenso mare immoto dell'Idhan Ubari. La facilità con cui camminano nella sabbia è impressionante: non sprofondano, non faticano, lasciano poche impronte. In pochi minuti coprono una distanza che io coprirei in mezz'ora, affaticandomi alquanto. Dietro una duna vedo Mulhai rivolto verso l'invisibile Mecca che prega, e sto qualche minuto a guardarlo. Mi piace vedere i musulmani che pregano. Dai loro gesti sgorga un'immensa fede.
    Il tramonto si conclude, tra esplosioni di luce quasi apocalittiche. Scendo dalla duna, e raggiungo il campo. Mangiamo, parlando del giorno dopo, di cosa ci aspetta. Io sono timoroso, con Jo avevo anche ipotizzato di abbandonare la moto e farmela in macchina con lui, ma ci ho ripensato. Ci proverò, se sarà terribile una soluzione la troveremo!
    Di colpo le mie due amiche Lara e Marta impazziscono: hanno visto un topo strano, che si muove come un canguro. Il mitico Topo delle Piramidi! "Ma siete sicure?" - "Si" - Ma è andato via. Poco dopo però lo rivedono, e lo rivedo anch'io: cominciamo a corrergli dietro. E' bellissimo, piccolo come un topo di campagna, si muove a tratti come un topo normale, a tratti saltando alto. Io abbandono la ricerca, per lasciarlo in pace: è chiaramente attratto dall'odore del cibo; le piccole però continuano a corrergli dietro, ma lui è ovviamente più veloce. Ancora una volta il Tuareg mi stupisce: Assan Sharif si alza, va verso il posto dove le bambine dicono che c'è il topo, e dopo neanche un minuto torna col topo in mano, tenendolo per i fianchi! Come avrà fatto? Un topo è velocissimo, scattante, ed oltretutto si divincola abilmente da qualsiasi presa. Questi uomini sono pieni di segreti.
    Lo porta dove noi mangiamo, e lo osserviamo: il topo non è neppure aggressivo, possiamo anche accarezzarlo. Sharif lo tiene per la coda, prende un po' di Cous Cous e glielo dà.

    In seguito, anche dopo cena, lo vedremo spesso gironzolare attorno al campo. Noto, prima di andare a letto, che i nostri Tuareg hanno lasciato gli avanzi del cibo in una ciotola, all'aperto: la vita del Tuareg dipende anche dagli animali.

    Lunedì 22 dicembre

    Oggi è il compleanno della mia moto, 3 anni dal giorno del ritiro. Ho deciso da cambiarle nome: il primo era Lulav, un termine ebraico che indica i rami di piante usati durante la festa delle Palme; il secondo Legione, dal nome dell'indemoniato del Vangelo; il terzo sarà Itràn, ovvero "Stelle" (plurale) in Tamashek, la lingua Tuareg. Quando partiamo, devo rifare le 3 dune terribili del giorno prima. Tutte ok, sono sopra all'ultima tutto contento, ma al momento di discenderla scopro che il versante in discesa nasconde un avvallamento formato da un'altra dune. La caduta è rovinosa: nessuna botta a me, ma freccia e specchietto destri rotti. Gran bel modo di farle festeggiare gli anni! Be, ha poco da lamentarsi: cadere nel Sahara è sicuramente meglio che cadere nel Tagliamento!
    Risaliamo sul maledetto asfalto e ripartiamo. C'è da dire che questo asfalto è terribile: la sabbia lo distrugge, creando buche ma, soprattutto, tantissime cunette, simile al Tole Onduléè ma più lunghe, che provocano fastidiosissimi saltini alla moto. E' un viaggio massacrante, dobbiamo fare 200 km e i primi 40 ci rompono già le balle! Michele, tra l'altro, non lo sopporta per via della sua schiena.
    E' un viaggio pallosissimo. Tra l'altro facciamo una sosta a Germa per... non so cosa; poi un'altra sosta in un altro paese, mi pare Ubari, per cercare un Internet Point. Mario deve spedire a degli amici una bella foto, fatta nell'Akakus, in cui ciascuno di noi tiene una lettera in mano per creare la scritta "Buon Natale". Dopo tre quarti d'ora uscirà dal locale incazzato perché non funziona niente. Nel frattempo noi siamo stati circondati da dei marmocchi rompicoglioni che toccano tutto, guardano tutto, e che veramente non hanno un'espressione raccomandabile; quando poi ti chiedono soldi, tenendo in mano il loro Nokia UMTS con fotocamera da 2 MPixel ti fanno proprio girare i coglioni!
    Ripartiamo, abbiamo perso un bel po' di tempo, e dopo un po' ci allontaniamo dall'asfalto per fare la sosta pranzo.
    Aroun si è già messo in moto, quando noi arriviamo: quel ragazzo è incredibile!

    Anche a bordo strada, basta addentrarsi un momento tra gli arbusti, e ti ritrovi in un luogo con un panorama immenso e splendido.

    Mangiamo e facciamo il pieno: questa volta ciuccio io dal tubo per far scendere la benza dalla tanica. SOlo che io sono friulano, e sono abituato a fare la stessa cosa con le damigiane di vino. Per cui, quando aspiri, sfrutti anche l'occasione per farti una bella sorsa di vino. La sbadataggine mi farà fare la stessa cosa qui, bevendo un sorso di benzina libica. Il sapore non mi resterà a lungo in bocca, ma per tutto il giorno ad ogni rutto emetterò vapori che mi faranno temere ad ogni sigaretta accesa di patire una infelice combustione interna. Morire bruciato in mezzo al Sahara non è proprio il massimo! Ripartiamo, e facciamo un'altra sosta: è durante una di queste che Michele e Mario decidono di provare la Transalp, verso il quale provavano molti dubbi. I giudizi pienamente positivi che le rivolgono mi riempiono d'orgoglio.
    E così, ad un certo punto, usciamo dall'asfalto, un po' di terra, un po' di ciottoli, quindi comincia la sabbia, e vedo l'inizio dell'immenso Idhan Ubari avvicinarsi, e con esso la mia sofferenza. E comincio pure bene: i cordoni di dune si avvicino, io comincio a sprofondare, devo tenere la moto ben veloce per galleggiare, ma le vetture rallentano. Devo vedere da che parte va Assan Sharif, ma lui rallenta sempre più. Io vado avanti a zig-zag ma non riesco a stargli dietro, e gli passo davanti. Rallento ancora, è il dramma assoluto: "Muoviti cazzo!" urlo. Potrei seguire le scie lasciate da altri mezzi, tanto bene o male tutte portano ai laghi; però una scia va a destra, l'altra a sinistra, e dietro le dune non vedi bene la pendenza. Avventurarmi da solo lì in mezzo, basta un nulla per sparire alla vista degli altri, e per me per insabbiarmi. Mi sposto a destra e sinistra, ma niente da fare, mi devo fermare: c'è uno spiazzo in cui la sabbia ha un colore diverso e delle ondine, penso che magari quella è più dura e decido di fermarmi un attimo lì: non l'avessi mai fatto. Sprofondato fino alla forcella. Accelero un attimo, ma faccio solo una grossa fontana di sabbia. Sharif si mette a ridere, scende, e mi insegna il nome di "quel" tipo di sabbia: Fès Fès. Una cosa che devo temere: probabilmente a questo si riferiscono le leggende sulle famose sabbia mobili. A fatica togliamo la Transalp dalla sabbia, superiamo qualche duna, e partiamo per un Plateau. Le altre 3 moto vanno più tranquille e provano qualche duna, io soffro come un cane, e con me la moto: il motore gira in 3^ o 4^ a 5/6000 giri, ma la velocità è ben bassa. Maledico il gommista che non mi ha preso i fermacopertoni.
    Il malumore però non può durare a lungo: il luogo è magico. E' splendido il deserto montuoso, l'Hammada; anche i plateau di serir, la ghiaietta, è bello; ma per me, l'Erg con le sue immense ed infinite e silenziose dune è fantastico. Il Mare di Sabbia è un luogo in cui mi piacerebbe addentrarmi con uno zaino, magari un cammello, e camminarci per sempre. La sua desolazione, le enigmatiche forme delle dune, questa silenziosa ed uniforme devastazione mi attrae in maniera poderosa. Passiamo attraverso una zona piatta, poi valichiamo alcune dune, scendiamo da altre, soffro, ma nel resto di quel giorno non patirò altre insabbiature. Culo indietro, gas aperto, e in discesa la moto non si pianta; culo indietro, gas aperto, marce alte, e la moto avanza nella sabbia. Ma questo tipo di guida, sulla Transalp molto fisica, strema il mio fisico allenato solo a star seduto al computer in ufficio, o appoggiato con un gomito al bancone di qualche bar.
    Quando ad un certo punto in lontananza vedo delle zone chiare che risplendono, penso sia il primo lago, e sono felice: invece è solo della terra, forse sporcata da un po' di sale, che la fa luccicare. Continuiamo così fin alle cinque e mezza quando, dopo aver sceso una duna, ci fermiamo per fare il campo. Io sono stremato, parcheggio la moto, non ho più la forza di fare nulla. Gli altri provano qualche duna: Michele prova la mia moto sulla sabbia, si gasa, parte, accelera, va su e giù per le dune; poi di colpo non sento più il rumore del motore. Vedo Fiky e Cielo che corrono verso una duna, Marta e Lara pure e urlano a Chiara "Intrattieni il Bostro"! QUando arrivo, Michele sta facendo una foto alla moto capovolta! Nessun problema, sapevo che sarebbe successo... La rimettiamo in piedi, torno al campo ancora più stremato per la passeggiata e lo sforzo di alzare la moto. Ma non ho neanche un minuto di riposo che questa volta vedo Jo insabbiato sulla duna da cui eravamo discesi per scendere al campo.

    Dopo mezz'ora passata a scavare la sabbia, la macchina si libera. Mentre le ombre si allungano, Mario dà lezioni di guida su sabbia ad Anna, che ci prende mano fino a fare una duna a 100 km/h, mentre noi terrorizzati urliamo "RALLENTAAAAA!". Ma tutto va bene.
    Mi vesto comodo, e mi incammino su per una duna; ma non riuscirò a raggiungere la cresta, sono stremato, la sabbia e finissima, e la duna è ripidissima. Mi siedo, stanco, sulla sabbia soffice; mi stendo, anzi, e mi accendo una cicca, ammirando il panorama, mentre il sole che tramonta cambia ci continuo il colore delle dune, che pian piano vengono imbrunite dalle ombre della notte.

    Mai vedrò, penso, un crepuscolo più bello. Venere già risplende alta nel Cielo. Vespero, a sera; Lucifero, al mattino; quante ore passate a studiare il saggio di Frege.

    Devo dormire il più possibile, stanotte, per essere riposato il giorno dopo, quando oltre 100 km di sabbia so che mi ridurranno in poltiglia.

    Martedì 23 dicembre

    Mi sveglio: il sole non è ancora molto alto, la sabbia sotto i piedi è gelida. Vado a fare colazione, e già di primo mattino il pensiero che oggi potrei non farcela è in mente. Smontiamo il campo, mi vesto, e vado alla moto per accenderla affinché si riscaldi: il blocchetto della chiave non gira.
    Rimango perplesso. La tolgo, la giro, e riprovo: niente da fare. Forse è andata sabbia nel blocchetto. Merda.
    Cambio la chiave, ma niente da fare. E adesso? Lasciare la moto lì, in mezzo al niente? Cazzo.
    Gli altri mi si avvicinano. Ipotizziamo di usare dello Svitol: solo che poi gli si appicicherebbe addosso la sabbia!
    Jo vuole provare: 2 minuti, e la chiave si gira. Un mito. I giorni seguenti, mentre io lotterò col blocchetto, mi risolverà sempre lui la situazione in pochi minuti. Gli suggerisco - vista la passione per le moto è che gli è sorta durante il viaggio - di aprire un concessionario KTM a Codroipo, ma non recepisce il messaggio!
    Spruzziamo ancora un po' di svitol, quindi sigilliamo il blocchetto con del nastro americano; in seguito spegnerò la moto col pulsante rosso, lasciando il quadro acceso.
    Ci inoltriamo in un territorio irreale, senza gravità apparente: tutto è storto, pare di muoversi in un'ambientazione di Escher.

    La sabbia è finissima e mi fa impazzire: evito come luoghi infestati da spettri maligni le zone che riconosco come infido Fès Fès.
    Arriviamo in un'oasi piena di palme e vegetazione. Come scendo dalla moto, vengo raggiunto di corsa da un arabo che, secondo me, è frocio. Mi dice in inglese (finalmente qualcuno che lo parla) che fa parte di una TV, e che stanno facendo un servizio. Mi chiede da dove vengo, io lo chiedo anche a lui e al resto del gruppo: uno è libanese, lui è libico, altri due libici, ed un tunisino. Mi chiedono alcune foto con me vicino alla moto. Le fanno col cellulare! Bel canale televisivo, dunque! Uno fa anche un video mentre io e il frocio parliamo: è simpatico. Anche gli altri sono simpatici. Ancora qualche chiacchera, poi li saluto. Devo ammettere che questo mio primo viaggio in paesi arabi mi ha lasciato molto ben impressionato per la gente che ho incontrato. Ne avrò poi la conferma definitiva durante il viaggio del ritorno, in una sosta forzata causa vuoto nel serbatoio.
    Mi giro, e compare il mio primo lago tra le dune. E' una visione quasi irreale. Non è molto largo, ma è bello, bellissimo, indubbiamente.

    I laghi di Mandara prendono il nome da uno di questi laghi (che paradossalmente è secco - lo visiteremo alla fine del giro). Sono salati, molto salati. In uno di questi, il Gabraoun, ci sono anche delle specie di gamberetti, rossi e minuscoli. Avevo letto a casa che le dune in alcuni casi trattengono l'acqua; ma da dove arriva?
    C'è un mercatino di Tuareg: hanno gioielli vari, tutta la serie delle loro "croci", più altre cianfrusaglie. Decido che è il posto giusto per comprarmi una collana. Sharif ci dice che possiamo fare i nostri acquisti più avanti, saranno anche più economici, ma io lo voglio fare qui. Vedo una bella collana con la Croce dei Tuareg dell'Akakus, che persino entra nel mio enorme collo: è mia, 25 Dinari. Avevo anche promesso a mia zia e mia mamma che avrei comprato delle collane anche per loro. Chiedo informazioni sul corallo fossile, ma non ne hanno - le donne conoscono tutti i gioielli fabbricati al mondo! Però ci sono delle belle collane con una croce dell'Akakus stilizzata e delle pietre di Agatha levigate. Sono belle, grandi, e belle; sono indubbiamente una bella collana; 50 Dinari. Chiedo il totale di due di quelle, più la mia, e il Tuareg mi scrive sulla sabbia 150 Dinari. Sarai anche un Tuareg, ma sei un gran tira-tacconi! Abbasso a 125 Dinari, e mi dice indubbiamente di si. Chiaro, è la somma dei prezzi che mi hai dato prima. Lo osservo un attimo: i denti marci, gli occhi un po' velati da un po' di cataratta. Potrei trattare ancora, ma a che pro? Da noi collane così costano sicuramente di più: ma da noi le comprerei da un panzone, qui le sto comprando da uno che con i miei soldi dovrà sfamare chissà quante persone, e quanti cammelli. Fanculo, poveri disgraziati: tiro fuori i miei 125 Dinari e lo ringrazio. Regali fatti, souvenir per me fatto, carità fatta: tutto in un colpo solo.
    Ripartiamo. Passiamo ancora un po' di dune. Lasciamo le vetture distanti che ci indichino la strada, e noi facciamo percorsi più divertenti per le nostre moto. Arriviamo in un'altra oasi, dopo alcune palme, ci sono delle baracche in rovina.

    L'atmosfera è irreale: un'intera oasi abbandonata. Il lago porta ancora i segni di un campo attrezzato per turisti, con tanto di cartello di benvenuto.
    Il Ghedda ha tentato in tutti i modi di aumentare l'urbanizzazione della Libia, portando via molti abitanti del deserto. E probabilmente lasciandone solo il minimo indispensabile - quelli dei mercatini - ad majorem gloriam turistorum! Non ha minimamente capito cosa implica l'urbanizzazione: che venga a farsi una vacanza in Friuli, e poi capirà!
    Mentre visitiamo questo spettro nel deserto, le auto si sono allontanate. Le vediamo scomparire dietro una duna lontana. Ripartiamo, andando un po' veloci per raggiungerli: dopo un po', all'orizzonte ancora nulla. Solo sole e sabbia. Attraversiamo un altra oasi. Avvicinarsi a questi luoghi è surreale: sei in mezzo alle dune, e di colpo vedi delle piante. Ci entri, e pare di essere in un boschetto. Poi di colpo la vegetazione finisce, come un muro, e tu esci dalla porta di questo castello incantato, e di fronte a te il nulla.

    Fatto sta che entrati ed usciti anche da questo, le auto non si vedono. Ci fermiamo: "Mmm, ma quanto cazzo corrono?" - "No, non è possibile" - "Ma dove potrebbero essere?" - "Che abbiano valicato qualche cordone di dune, a destra o a sinistra?". Noi però stiamo seguendo delle tracce, e teoricamente, anche se non sono quelle delle nostre auto, seguono lo stesso percorso, magari differente in alcuni tratti, ma il giro e le tappe sono identiche. Ripartiamo, io comincio ad essere seriamente stanco. Passiamo un altro gruppo di arbusti, e mentre lo superiamo noto un pickup con un Tuareg che raccoglie legna; ma non è dei nostri. Saliamo su una duna più alta poco oltre e ci guardiamo tutt'attorno: niente, silenzio. Cielo, manetta prorompente e moto leggera, si offre volontario, obbligato da tutti noi, per andare a dialogare con quel Tuareg: alla fine - il richiamo di qualche km in più di sabbia - lo segue anche Mighe. Io ricordo di un lago, di nome "Oul El Ma", che nella guida è descritto come tappa obbligata, perché il più grande e bello; quindi quello le auto dovranno sicuramente visitarlo. Quando tornano ci dicono che Oul El Ma è circa a 20 km, ma in tutt'altra direzione, oltre il cordone immenso di dune alla nostra sinistra. Non è possibile che le auto siano andate di là. Ripartiamo, e in un'altra oasi le auto ci compaiono misteriosamente alle spalle! Santo deserto, celi all'occhio ogni cosa! Ci dicono che erano andati sopra a una duna ad ammirare il panorama, avevano anche visto noi che correvamo come ebeti in lungo e in largo.
    Poco dopo siamo al lago di Gabraoun: il lago è bello grande, molto salato, con degli animaletti rossi simili a dei gamberetti, ma molto più piccoli. I Garamanti, antichi abitanti di questi luoghi e da alcuni considerati gli antenati dei Tuareg, erano chiamati "Mangiatori di vermi" perché vivevano qui e si nutrivano di questi animaletti.
    C'è un bar, ci sediamo all'ombra della sua tettoia per godere di questa vista ultraterrena. Jo scala una duna e scende a velocità folle con la tavola da Snowboard. Altri vagano per il mercatino. Becchiamo anche i belgi. Io crollo sulla sedia quasi senza forze.

    Sul muro del bar sono appesi centinaia di pacchetti di sigarette, un cartello stradale italiano, scritte di un tipo francese che farnetica, un sacco di apologie di Mr. Khadafi! "Mr. Khadafi at il changè - Laissez Mr. Khadafi tranquille - La libye est un pais qui change - De très bonnes relations entre Tripoli e Whag(h)inton". Ce ne sono varie. Sulla porta del bar troviamo anche un adesivo celebrativo di un misterioso "Tony Bigola".
    Io bevo un thè: è quasi ora di pranzo, e sono sicuro che tra poco mangeremo. Mai scelta più errata: mi aspetteranno un sacco di dune, avrei dovuto far incetta di zuccheri, ma lo scoprirò a breve.
    Una volta partiti, facciamo un po' di sabbia, quindi cominciamo a valicare l'enorme cordone di dune alla nostra sinistra. E' immenso, arriviamo in cima per percorsi che si snodano fra le varie cime. Impressionante, sono massacrato dalla fatica, sudo fiumi di sudore, comincio a sentire la mancanza di zuccheri, le braccia cominciano a mollarmi. Ad un certo punto, le auto delle guide si fermano in prossimità di una cresta. Andiamo a vedere, mentre Sharif scende: la pendenza è allucinante!

    Mario scende. Michele prende male l'inizio ed è costretto a farla tutta seduto, a gambe aperte: è talmente ripida che se non la fai già in piedi, poi non hai la forza di spingerti indietro. La duna inizia con una cresta che devi prendere veloce per non insabbiarti, quindi lasciare che la moto si inclini in avanti, sbilanciando il corpo all'indietro, e cominciare a dare gas. Cielo va pi tranquillo, scegliendo il punto più ripido! Jo scende, la sua auto si imbarca un po', ma ce la fa.
    Arriva il mio turno: evito di prendere quel punto, perché la cresta è piuttosto fragile per il peso della mia moto, ed inoltre è già un po' rotta. Vado un po' più a sinistra dove sembra meglio: in realtà, a parte l'attacco più semplice, la pendenza è identica. Accelero un po' per valicare la cresta, guardo dall'altra parte e lontane in basse le auto sono piccole. Gli amici mi incitano. La moto si inclina in avanti, io sono in piedi, ben posizionato, la seconda già innestata. La moto continua ad inclinarsi in avanti in un movimento per me infinito, ma che sarà stato lungo si e no un secondo. "Ok, la moto si è stabilizzata: danziamo" - e comincio ad accelerare. Culo in pratica sul portapacchi, la pendenza è assurda. Ogni volta che sento la gomma davanti affondare leggermente dò un po' più di gas. La velocità acquistata dalla moto è alta, se cado ora sono fottuto. La spalla mi fa un male cane, devo sforzarla per stare indietro e contemporaneamente comandare il gas. La discesa sembra non finire mai. Ma alla fine finisce. Con un affossamento finale, in cui la nuova forcella viene messa ampiamente alla prova, ce l'ho fatta. Mi avvicina agli altri, che mi fanno i complimenti, e concludo la vicenda con un sonoro "Andate tutti quanti a cagare!". Fantastico. Anche in seguito, la mia discesa sarà considerata la migliore; ma se vista dall'esterno è così, posso dire che dal mio punto di vista è stato un grande azzardo. Certamente è così che moto come la mia non affondano; ma se lì fossi caduto, avrei rotolato per un bel po', facendomi un gran male. Pochi giorni dopo il mio rientro verrò a sapere che ad un mio amico andò più male, in un punto simile.
    La sabbia, probabilmente anche perché scaldata dal sole a quest'ora del giorno, è ancora più soffice: e da quel momento in poi saranno solo dunette da fare, ed un'altro cordone bello alto. Pian piano sento le forze che mi mollano. Sono costretto a fare sempre più pause, durante le quali noto come la moto affondi sempre di più, anche nei punti che erano più compatti.

    Il respiro mi è sempre più affannoso, dietro gli occhiali la condensa del sudore me li appanna, dalla fronte scendono gocce sempre più frequenti. Ma sono soprattutto le sensazioni corporee che mi preoccupano: sono stanco, ma di una stanchezza particolare. Se mi riposo per qualche minuto, pare che stia meglio, ma quando risalgo in moto è tutto uguale. Il mio fisico sta cedendo. Faccio sempre più fatica a tenere la moto, e rischio svariate insabbiature; altre ne faccio.
    Durante il superamente di un cordone c'è il crollo. La moto mi si insabbia, sono da solo, la disinsabbio da solo e con questo finisco le forze. Risalgo, il respiro quasi mi spezza la pettorina, riparto ma non ho forza, le braccia sono molli, le gambe anche, non riesco a stare in piedi. Mi rinsabbio. Attendo gli altri, ormai è il dramma. Arriva per primo Assan Sharif, correndo, e quando mi vede steso a braccia aperte nella sabbia, la moto perfettamente in piedi, si mette a ridere come un matto. Ma io sto veramente male. Tento di guidare mentre mi spingono, ma non ce la faccio. Sto soffocando, mi slaccio in fretta il casco e tolgo gli occhiali e respiro a pieni polmoni. Riposo una decina di minuti, pare che stia meglio ma come mi rimetto in moto, gli altri avanzano, io faccio 10 metri e mi rinsabbio nuovamente; torno a sollevarla, arrivo in cresta ad una duna oltre la quale c'è la discesa, ma le gambe mi mollano, cado sulla moto, che si infossa proprio sulla cresta. Scendo dalla moto e vedo pallini bianchi dappertutto. Michele si offre per portarmi la moto, ma da gran cocciuto mi rifiuto. Devo farcela. Devo. Ho questa moto, e non devo far pesare a nessuno il fatto di avere questa moto. "Se avessi saputo che il pasto era così lontano"... In effetti, forse mi sarei preso le pastiglie rivitalizzanti dalla sacca. E' un insegnamento che terrò buono per il futuro. Mi portano delle bustine di zucchero, le sciolgo in mezzo litro d'acqua che scolo in un sorso; un altro mezzo litro me lo butto in testa. Ok, i pallini sono scomparsi: risalgo in moto, scendo dal cordone di dune, il fisico manca ma con un po' di gas ce la faccio. Su due curve mi sento come anni fa sugli sci: la moto che ancheggia nella sabbia ma avanza. Altra duna, altra discesa, altra salita, di nuovo ho i pallini, scuoto la testa, la spalla mi fa impazzire; ma finalmente all'orizzonte vedo le palme. Dev'essere lui: Oul El Ma. Riesco ad arrivare al lago in un ultimo sfoggio di resistenza fisica: non sarei riuscito a fare dieci metri in più.
    Il lago è meraviglioso, stretto e lungo, è veramente enorme.

    Mi tolgo tutti i vestiti e li metto ad asciugare: sono fradici. Aroun ci ha preparato il pranzo sotto una tettoia, e sta parlando con un altro Tuareg che vive lì.
    Mangio come un bue, bevendo litri d'acqua e anche - me le concedo - qualche Beck's analcolica. Guardo la moto, parcheggiata più lontano, e ne sono fiero: da quando l'ho comprata, 3 anni fa, continuo a dirmi che è stato l'acquisto più bello di tutta la mia vita!
    Quando ripartiamo, siamo tristi, perchè sappiamo che saranno gli ultimi km di deserto. Sharif ci porta a visitare il lago dall'alto di una duna.
    Il lago successivo, quello di Mandara, è completamente prosciugato. E' una visione triste, con le sabbia che ne hanno ricoperto il fondo, e la vegetazione che pian piano muore ai suoi lati.

    Sono contento di aver visto almeno gli altri, prima che facciano la stessa fine.
    Ripartiamo, facciamo ancora qualche duna, poi comincia un terreno quasi piatto in cui riesco anche a sedermi (sempre sul portapacchi) e così a riposarmi un po'.
    Lontane si vedono delle sagome troppo strane per essere delle dune, e troppo famigliari: sono infatti i due picchi dall'altra parte della strada di Germa. Quando ad un certo punto arriviamo in cima ad un duna, oltre la sua discesa vediamo il campeggio: incredibile, è la stessa duna vista 7 giorni prima, quella che pensavamo "non faremo mai dune simili". Invece, proprio da quella scendiamo! Quando arrivo al limitare della discesa dico "Finalmente, è finita la mia pena", ma Fiky a fianco amaremente mi risponde "Pensa invece che è la tua ultima duna". Rimango zittito. Ha ragione. Lascio che passino tutti, e scendo. Osservo il campeggio, la mia moto, l'Idhan Ubari alle mie spalle, e faccio l'ultima foto della mia moto tra le sabbie del Sahara.

    Scendo dalla duna, raggiungo gli altri al campeggio, e l'un l'altro ci stringiamo la mano. L'avventura vera e proprio, in pratica, è finita: ma il viaggio ancora no, c'è il ritorno. E anche il ritorno ci riserverà qualche sorpresa.
    Mentre ci sediamo al tavolo del bar del campeggio per bere una birra (analcolica 100%) arriva la brutta notizia. Non dormiamo qui, ma a Sebha. Sebha è a circa 150 km di distanza, e tutta la strada ha un asfalto pessimo. E' tardi, e ciò significherebbe arrivare a Sebha in tarda serata. Nessuno ha voglia di farlo. Ma... c'è un "ma". I miei 3 compari motociclisti non se la sentono di fare tutto il ritorno in moto, ed avrebbero trovato, tramite il nostro Sbirro, un tizio che col furgone porterebbe le moto fino a Tripoli. Pare però che se si vuole fare questa cosa, bisogna andare fino a Sebha stasera. Io, con ovvia voglia di strandolarli tutti e 3, comincio a dire di partire subito. Ma Mighe, veneto purosangue e quindi coi coglioni quadrati e di marmo, si infuria. Sbraita un po' in francese un po' in veneto, ed alla fine scopriamo che restiamo a dormire lì a Germa. Io nel frattempo avevo, con le lacrime agli occhi, già rimontato le valigie laterali sulla moto!
    Facciamo qualche giro di birra analcolica, e di colpo sentiamo un gran rumore di moto venire dalle dune, sulle quali si intravedono delle luci. Sono dei motociclisti, un gruppetto più numeroso di noi. Sono da soli, avevano mollato la guida per girare per i cazzi loro. Moto iper-preparate, satellitare, GPS, facce da tagliagole. Io non avrei mai mollato le nostre guide, sarà bello girare in moto, ma girare con loro è stato ancora più bello. Chissà, forse loro vengono in Libia due volte l'anno, e ... bo, possono avere tutte le scuse che vogliono, ma è chiaro che il mio spirito e il loro sono distanti anni luce.
    Le moto di Fiky, Cielo e Mighe vengono caricate su un furgone e spariscono fuori dal campeggio. Le ritroveranno? Lo scopriranno dopo-domani.
    Assan Sharif ci saluta: se ne va, va a Sebha, da dove domani partirà con un'altra comitiva. Un abbraccio caloroso, e per il resto della mia vita, suppongo, non vedrò mai più questa splendida persona. Aroun e Mulhai Sharif invece si fermano fin dopo cena: stasera è l'ultima cena che ci preparerà Aroun. La pasta sarà particolarmente buona. Dopo cena, facce stanche e soddisfatte attorno al tavolo. Aroun intona, dietro mia richiesta, la canzone "Ténéré" che ci aveva cantato nel deserto. Vado a fare un po' di bagagli, per trovarmi pronto il giorno dopo. Quando ritorno, dopo una mezz'ora, Aroun e Mulhai se ne sono andati. Non li ho neanche salutati. Sono dispiaciuto, ancora adesso, a distanza di vari giorni, penso a quel saluto mancato, a quelle due persone incredibile, mie compagne di avventure per così tanti giorni; al thè pomeridiano preparato da Aroun, a Mulhai che cura il fuoco, che scrive silenzioso parole sulla sabbia per poi cancellarle subito dopo. Tanti ricordi, senza un saluto.
    Andiamo a dormire dopo una doccia: doccia che dura, per me, circa mezz'ora: ad ogni passaggio di bagno schiuma sento la pelle diventare sempre più liscia.

    Mercoledì 24 dimcebre

    Ci svegliamo. Colazione, e partenza. Una gran rottura di coglioni. Dopo pochi chilometri ne ho già le balle piene. L'unica cosa che mi rallegra, è la catena di dune, alla mia sinistra, che segna l'inizio dell'Idhan Awbari. Quando scomparirà, non sarà più lo stesso. Il paesaggio è comunque bello, ma la sua desolazione mi rattrista, e sotto il casco la mia espressione non è comunque delle migliori.
    A pranzo ci fermiamo a mangiare nello stesso posto dell'andata. I suoi ottimi sandwich di pollo me li ricorderò per sempre! Decido di fare anche benzina; "Di già?" mi chiede Mario. In effetti l'ho fatta poco prima, un cartello indica il prossimo rifornimento a 180 km; potrei farcela tranquillamente, ma visto che siamo già fermi. E visto che la faccio velocemente, per non rallentare gli altri, evito di perdere tempo con l'ultimo litro e mezzo circa sopra la valvola, e riparto. A tratti sorpasso gli altri, vado avanti prendendo distanza, quindi mi fermo a bordo strada a fumare una sigaretta.
    Stasera saremo di nuovo a Al Qaryiat, in quel magnifico posto dove abbiamo dormito all'andata. Domani sera saremo invece a festeggiare il Natale a Gabès, il Tunisia, il giorno dopo saremo per mare, il giorno dopo ancora sarò a casa. Oddio, odio la fine di queste avventure: persone che non rivedrò più, mi immagino il momento del saluto ai miei compagni di viaggio, il ritorno ai bar, alle solite compagnie che so, mi conosco, per un bel po' mi annoieranno.
    Ma ad un certo punto non ho più tempo di pensare a queste cose: infatti, passati i 180 km, abbiamo trovato la stazione di servizio chiusa, senza carburante! La prossima è a 140 km: in totale sono 320 km dall'ultimo rifornimento (ringrazio il cielo per averlo fatto!), con la moto carica, e fin'ora tenendo un'andatura molto allegra! Sicuramente non ce la farò, mi metto già l'anima in pace. Comunque, comincio a tenere un'andatura più tranquilla. I km scorrono, la lancetta della riserva arriva nella zona rossa, la attraversa, la oltrepassa, infine si appoggia sul perno a fondo corsa. Ora so che da lì comincia la riserva vera e propria: infatti farò circa una trentina di km, per poi fermarmi miseramente. Teoricamente, scuotendo un po' la moto, potrei provare a fare ancora un po' di strada, ma non mi fido, poiché io non ho il rubinetto, ma ho una valvola a depressione che, da quel che ho capito, potrebbe aver problemi a pescare dal vuoto.
    Mi fermo, con me c'è Mario che avevo avvisato poco prima che non ce l'avrei fatta. Qualche automobilista passa suonando il clacson e salutando, il sole scende piano all'orizzonte in una pianura sconfinata. Anche in questo momento non posso non pensare a quanto è bello questo paese. Mario ferma una macchina per chiedere quant'è distante il distributore: se ne fermano 2! Scendono entrambi, cominciano a discutere, comunque pare che sia tra i 5 e i 10 km di distanza! Ma che razza di sfiga! Se avessi messo quel litro in più nel serbatoio!
    Vabbè, c'è poco da pensare: io starò lì, e intanto Mario andrà a prendermi un po' di benzina. Parte, e io resto solo, in una strada che all'infinito scorre da sinistra a destra, mentre di fronte a me e dietro di me c'è il nulla assoluto. Il sole scende piano, e nella mezz'ora successiva avrò la possibilità di assistere al più bel tramonto della mia vita. Il cielo d'Africa ed il suo solo hanno una natura ed una dinamica a noi completamente estranei. Sfortunatamente con me ho solo il cellulare.

    Mentre aspetto, chi passa mi suona il clacson, e mi saluta: io faccio foto alla moto ed al tramonto. Come la smetto, però, e comincio a stare in piedi vicino alla moto, o seduto, a fumare, comunque in palese stato di attesa, i passanti si fermano per chiedermi se ho qualche problema. Su quella strada desolata ed enorme passano abbastanza macchine, non te lo aspetti, ma c'è abbastanza traffico. Uno, due, tre, alla fine uno persino si ferma, capisce che sono senza benzina, e mi chiede se voglio caricare la moto sul suo pick-up e mi porterebbe fino al distributore!
    Alla fine mi rimetto a far foto ogni volta che passa un mezzo. Un'altra vettura si ferma, "Ma che palle!", da buon occidentale non sono abituato a questa gentilezza naturale: invece è la nostra guida che mi ha portato due bottiglie d'acqua, circa due litri e mezzo. Mi dice che sono 7 km: ok, lo rassicuro, ce la farò. Alla fine raggiungo gli altri, che ovviamente mi prendono per il culo, poi faccio il pieno, e ripartiamo. E' notte. Anche questa volta arriverò ad Al Qaryiat col buio. Una lauta cena, annaffiata di "Brau" analcolica all'ananas, e via a dormire! Quando quella sera entrerò nel sacco a pelo per l'ultima volta, mi accorgerò che... puzza!

    Giovedì 25 dicembre


    Oggi è Natale! Ci svegliamo col buio. "Tanti auguri!" - "Tanti auguri un cazzo!". Mi sveglio e comincio a raccontare, nel freddo della stanza, ai miei compari motociclisti il sogno erotico della notte scorsa. Saprò dopo che i nostri vicini di stanza non erano i camionisti libici che pensavo io, ma Jo e Lara!
    Rapida colazione, e ci mettiamo in moto, mentre da est il cielo comincia a tingersi di colori indescrivibili, simili al rosso. Per tutta un'ora successiva assisterò, correndo, allo spettacolo dell'alba africana, mai goduto (stupidamente) nel deserto. Il sole africano è diverso dal nostro: ha una dimensione ed una forma diverse, ha colori diversi, il cielo stesso è diverso. I primi raggi di luce tingono il nero della notte di un rosso acceso, che pare quasi un fenomeno da esplosione nucleare. Un nucleo rosso che si espande pian pian, attendi il sole, ed invece non compare: il rosso si apre, lasciando spazio a tonalità di giallo ed arancio, mentre il cielo si tinge un po' di blu, ma perlopiù continua a restare nero come la pece. C'è così tanta luce a levante che fai fatica a guardare; a ponente, invece, c'è ancora la notte, e la volta stellata. L'alba africana è un fenomeno lunghissimo, lento, difficile da comprendere appieno. Dura molto: ho i piedi e le mani gelati ma non ci penso. Attendo il sorgere del sole. Riuscirò a vederlo in estremo: prima di addentrarci in un canyon dalle parete piuttosto alte, vedrò spuntare il primo spicchio di sole, dall'inizio del fenome. E' passata più di un'ora!
    Alla fine perderò il contatto visuale con l'orizzonte, e ricomincio a godermi la strada. C'è un punto, me lo ricordo dall'andata, durante il quale di attraversa un passo, e ci sono le uniche cuve divertenti della strada: me le godo appieno.
    Arriviamo nei dintorni di Tripoli prima di pranzo: la guida entra in una strada sterrata. "Ma dove cazzo va?" - Deve aver piovuto, e c'è del fango per terra. Ad un certo punto, passiamo due pozze di fango profonde, paiono un guado, io non ho neanche una protezione addosso e le faccio con calma, senza strafare; oltretutto, a gambe alte per non sporcarmi. La guida ha sbagliato strada, dobbiamo tornare indietro e rifare le pozze; "Cazzo!". Ci rientro, ma la contrario è più insidiosa, il fango è più smosso; tento di tenere le gambe alte ma è inutile, la moto sprofonda e solleva un bel po' di fango. Risultato: stivali, calzoni e moto lerci. E quello era il mio ricambio "da festa"!
    Arriviamo alla casa di campagna dove sono le moto: i miei 3 compari resteranno un po' sconvolti nel constatare frecce rotte, carter grattati, plastiche graffiate. Altre magagne le scopriranno in seguito.
    Si riparte, e questa volta dobbiamo fare le terribili tangenziali di Tripoli: impressionanti, corriamo a 130 all'ora in mezzo ad un traffico completamente primo di regolamentazione e regole, ci buttiamo anche in sorpassi fuori-corsia, sopra in marciapiedi, in mezzo ad aiuole. E' l'anarchia assoluta. In un distributore ci fermiamo a mangiare un sandwich di pollo, e qui il cameriere tenterà di fottermi alla grande! Pago, e mi chiede 15 dinari; sono sovrapensiero, glieli dò, ma poi focalizzo la spesa e c'è ovviamente qualcosa che non va. Mi giro, lo guardo, e lui mi dice che è il mio autista! Peccato che lui parla solo arabo. Non ci capisco un cazzo, chiamo Michele che parla francese, ma l'altro non lo parla, arriva il suo capo che parla francese, arriva il nostro autista che parla inglese, io parlo inglese con l'autista, Mighe francese col capo, Mario francese ed inglese con entrambi, tutti parlano col tira-pacchi, gli altri parlano con me in italiano, io traduco in friulano a Mighe, che parla in Veneto con Jo che impreca in tedesco! E' il caos linguistico, una specie di nuova Babele! Alla fine, si intuisce che lui ha fatto pagare a me tutto il nostro tavolo di motociclisti, salvo poi far pagare agli altri - nuovamente - la loro parte. Sinceramente, tutto ciò che imparo da questa esperienza è che se voglio tornare da quelle parti devo rispolverare il francese; senza comunicazione sei fottuto!
    Io e Michele, nella furia della corsa, ci perdiamo l'ultimo rifornimento prima della dogana: il malumore sarà comunque alleviato dalla foto che ci faremo fare sotto ad un cartello di celebrazione del grande Mr. Khadafi!
    In dogana salutiamo anche la nostra ultima guida, molto gentile e disponibile, e lo Sbiro, che in silenzio ci ha accompagnato dal primo all'ultimo giorno in Libia - sarà soprannominato L'Inutile. Ovviamente, restituiamo le targhe libiche. La mia moto ha dato così tanto che il portatarga è in buona parte fuso dallo scarico.
    La dogana è, al solito, noiosa. Per un bel pezzo staremo seduti per terra, ad aspettare che una poliziotta comprenda come utilizzare tutti assieme le sue mani, due timbri, ed i nostri passaporti. Subito dopo ci fermiamo al mercato nero per cambiare i dinari libici in dinari tunisini.
    Arriviamo a Gabès in serata: l'albergo è molto bello. Andiamo in camera, buttiamo giù i bagagli, e ci fiondiamo al bar, dove io pago un giro di birra per il compleanno già trascorso della mia moto. Poi andiamo a cena, e ci concediamo due bottiglie di vino, mangiando abbondantemente. Quindi torniamo al bar, beviamo una grappa, e ci rendiamo conto di essere ubriachi fradici! Andiamo a dormire, che è molto molto meglio.

    Venerdì 26 dicembre


    Che dire, ormai, le avventure sono sempre meno in questo viaggio. Lungo l'autostrada Sfax-Tunisi io e Michele rischiamo di restare senza carburante, e vaghiamo per un po' di km fuori dall'autostrada. Quando troveremo la stazioe di servizio, Michele avrà meno di 10 km di autonomia!
    Arriviamo in porto alle 12:45. Avevamo in mente di arrivarci alle 12-12:30, ma abbiamo avuto qualche ritardo. Comunque, secondo noi, siamo ancora bene, perché la nave parte alle 15! "Alle 15? No, parte alle 13!" - "Cosa???" - Mario resta senza parole. Io comincio già ad essere contento: giriamo le moto ed andiamo a Ksar Ghilane!!! Invece ci permettono di imbarcarci ugualmente. Non sapremo mai se le informazioni sulla nostra prenotazione erano sbagliate (come dicono loro), o se la nave è stata semplicemente anticipata. Facciamo una lunga corsa per cambiare gli ultimi dinari; Cielo correrà quasi per niente, in nave si accorgerà infatti di averne ancora un bel po'!
    Ci imbarchiamo, la nave è semi-vuota. Il viaggio è noioso: saliamo, e ci portano subito a mangiare. QUindi ci sediamo ai tavoli del bar, a raccontarci l'avventura passata e a bere birra e grappe.

    Così trascorre il nostro viaggio: una birra, una grappa, un caffé, una sigaretta, "Un altro giro, please", poi la cena, poi il bar. Poco prima di andare a letto la nave comincerà a fare dei bei salti, che faranno incontrare a Mighe più volte la tazza del cesso!

    Sabato 27 dicembre

    Mi sveglio presto e triste. E' finita. Faccio un giro per la nave, è buio, il mare mosso della notte prima ha sconvolto tutto: manichini dei negozi caduti, sedie ribaltate. L'accesso ai ponti è ancora impossibile, poiché ancora pieni di acqua. C'è ancora un po' di mare, e solleva molti schizzi. Osservo l'alba attraverso il vetro di un oblò, fumando una sigaretta, ma è ben poca cosa rispetto all'alba vista in Libia.

    Pian piano si svegliano tutti, facciamo colazione, e cominciano a prepararci per lo sbarco che avverrà verso le 11. E così sarà, puntualissimo.
    Le previsioni meteo danno sole su tutto il nord, ma freddo oltre le media stagionali: inoltre c'è stata neve i giorni scorsi, e io e Fiky vogliamo partire il prima possibile per non dare tempo alla neve rimasta di ghiacciarsi. Accompagniamo tutti quanti Fiky e Cielo all'albergo dove hanno in deposito il furgone, quindi arriva il triste momento del commiato. Ci salutiamo tutti calorosamente. Sono anche costretto a salutare le mie due piccole amiche! Che odiosi i saluti, chissà poi quando, e soprattutto se, ci rivedremo.
    E alla fine, io e Fiky partiamo. Gelo fino ad Alessandria, circa, peggio del previsto. Gelo terribile. Mani viola. Corriamo come matti, a 130/140 all'ora. Arriviamo a Verona, dove il padre di Fiky è venuto a prenderlo col furgone. Saluto così l'ultimo membro della compagnia, e mi avvio solo, mentre il sole cala, attraverso il Veneto imbiancato di neve, attraverso ancora una volta il Fiume Zero che all'andata mi ero dimenticato di salutare, ed arrivo a Codroipo verso le 19. Bevo un thè caldo in stazione. Ho le dita viola, non sento i piedi. Quando arrivo a casa e parcheggio la moto mi accendo una sigaretta, e la guardo: è tutta sporca di sabbia e fango; ha una frecca rotta, il perno dello specchietto ancora avvitato. Ma lei è ritornata dal Deserto del Sahara.
    La sera uscirò con alcuni amici a cena, e, come avevo supposto, tutto mi sembrerà frivolo e piccolo, in confronto al viaggio appena concluso, alla Maestà del Deserto del Sahara. Da un luogo simile non torni uguale.



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