La nostra artiglieria aprì il fuoco alle 5 del mattino. La grande azione che andava, per cinquanta chilometri, da Val d'Assa a Cima Caldiera, era iniziata. Sull'Altipiano, comprese le bombarde pesanti da trincea, non v'erano meno di mille bocche da fuoco. Un tambureggiamento immenso, fra boati che sembravano uscire dal ventre della terra, sconvolgeva il suolo. La stessa terra tremava sotto i nostri piedi. Quello non era tiro d'artiglieria. Era l'inferno che si era scatenato. Ci eravamo sempre lamentati della mancanza d'artiglieria: ora l'avevamo, l'artiglieria.
L'artiglieria nemica controbatté con i grossi calibri, ma non tirò sulla prima linea. Sulla nostra prima linea tirò solo la nostra artiglieria.
Quello che avvenne non fu sufficientemente chiarito.
Trovai il generale comandante della brigata in fondo a una piccola caverna, seduto, con il microfono in mano. Gli raccontai affrettatamente quanto avveniva. Egli m'ascoltava, calmo fino all'abbattimento. Io parlavo agitato, ma egli restava indifferente. Nell'eccitazione, io mi lasciai sfuggire:
- Signor generale, quante corbellerie, oggi, stiamo commettendo! -
Il generale s'alzò di scatto. Io credetti volesse mettermi alla porta. Mi venne incontro e m'abbracciò, piangendo.
- Figliolo, è la nostra professione - mi rispose.
Seppi che egli inviava portaordini e fonogrammi, vanamente, da oltre un'ora.
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