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Il Rogo della Fenice: 20 anni fa io...

Categoria: RACCONTI

KEYWORDS: musica | ricordi |
Inserito in DATA: 29/01/2016 | Vai ai COMMENTI
Oggi è il 29 gennaio 2016, vivo a Codroipo, in questo momento sono in ufficio. Leggo l'articolo, e comincio a buttare giù queste righe perché sono una persona ossessionata dal passato e questo è un momento topico.
Il 29 gennaio del 1996 ero in cucina nel mio appartamento di Cannaregio, vicino al Ponte dei 3 Archi, a Venezia.
Era il mio primo anno di università. Era il mio primo anno fuori casa.
Da pochi mesi vivevamo lì in quattro persone. Un simpatico appartamentino, lo ricordo basso come bassi erano i suoi proprietari, e ricordo che sbattei la testa dappertutto in quell'anno.
Io (alias Antonio), Agruz, e Il Vecchio (detto anche John) stavamo giocando a carte, a Scala Quaranta, sul tavolo della cucina, fumando, mentre Jack sedeva in soggiorno.
Ci eravamo trasferiti lì mi pare con Ottobre, dovevamo ancora conoscere bene la Città perché ci stavamo ancora orientando nel complesso mondo dell'Università con le sue varie sedi distaccate e dipartimenti e stronzate varie.
A quei tempi ero già appassionato di musica classica, e cominciavo a prendere le mie prime lezioni di pianoforte; uno dei motivi per cui lasciai quel simpatico appartamento fu proprio il fatto che necessitavo di una ca
Non so se si sentivano già gli elicotteri: o non lo ricordo, o non badammo alla cosa, ancora vezzi al casino delle città della terraferma, e non abituati al magico silenzio di una città in cui non vi sono auto motorini e stronzate varie.
Un rumore così, invece, avrebbe dovuto subito destare in noi un sospetto che qualcosa non andava.
Mentre giocavo, un orecchio di colpo cominciò a far mente locale alle voci che mi giungevano dalla TV. Parlavano di intervento dei Vigili del Fuoco, di problemi con gli elicotteri, di pericolo per le case adiacenti, e a un certo punto mi alzai con un timore inconscio e non perfettamente identificato.
Quando arrivai in soggiorno Jack ci disse, con la sua solita voce monotona e al limite del fastidioso, mentr eil suo solito rimbambito ghigno gli decorava il volto:"C'è un incendio a Venezia"! Mi bastò un'occhiata alle immagini della TV, perché quell'edificio lo conoscevo bene, e proprio in cucina, prima di cominciare a giocare, avevo concluso di mettere crocette segnaposto sul programma annuale di concerti al leggendario Teatro La Fenice.
Arrivarono anche Agruz e il Vecchio e quest'ultimo, già da due anni a Venezia, gli disse incazzato "Ma Jack sei rincoglionito, quella che sta bruciando è La Fenice!".
Seguimmo la trasmissione per qualche secondo poi ci precipitammo in terrazzo perché a quel punto il rumore di lontani elicotteri era chiaro: il cielo nero della notte era rischiarato di rosso. A Venezia il cielo è sempre rossastro, la notte, perché le fabbriche della costa tingono continuamente il cielo di luce e un gran cielo stellato è piuttosto raro vederlo, perlomeno dal centro città dove anche le calli spingono la luce verso la volta.
Ora però il cielo era troppo rosso, e solo in una direzione che non era quella della terraferma.
Io non avrei mai saputo come raggiungere il Teatro, non ero ancora avvezzo al labirinto di viottoli che compone quella tragica e magnifica cittadina, ma per fortuna c'era John (sempre lui, Il Vecchio).
Ci vestimmo in un lampo, e partimmo.
Jack ovviamente restò a casa... Tenete conto che era studente d'architettura.
Dappertutto c'era gente che camminava veloce, in effetti ci sarei arrivato anche da solo.
La luce rossa aumentò sempre più, come il rumore delle pale degli elicotteri.
Arrivammo fin dove ci permisero di andare, ma eravamo dietro a molti edifici e non si capiva un po' un cazzo. Il Vecchio ci disse "Venite con me" e cominciò a portarci per callette strette e corti e tunnel lerci e puzzolenti, quasi mi incazzavo pensando che mi avrebbe fatto correre inutilmente come un cretino finché non arrivammo a un'apertura su un canale dove c'erano ben poche persone, a indicare che era una di quelle zone delle quali i turisti ignorano completamente l'esistenza, ce ne sono moltissime a Venezia. Pochi sapevano, ad esempio, che molto gondole per 500 lire ti portavano da una parte all'altra del Canal Grande. Ed era anche meglio così.
Ci avvicinammo al muro di gente, e da lì vedemmo il teatro avvolto dal fiume, e il tetto enorme tutto incorniciato da una inquietante luminosità rossa e calda. Gli elicotteri facevano manovre al limite del possibile sorvolando con rapide e pericolose virate le fiamme e scaricando tonnellate di acqua in uno dei templi dell'Italia che bruciava inerme, quasi un simbolo di ciò che stava succedendo all'Italia intera da anni e che oggi è ormai la quotidianità.
I canali prossimi al teatro erano in secca per lavori, e in una città che non ha strade, se i canali sono secchi, gli aiuti non possono arrivare. Non c'è modo di muovere i motoscafi di emergenza, non c'è modo di prendere acqua da sparare.
Solo gli elicotteri potevano far qualcosa, ma non ci sono riusciti.
Tornammo a casa, ormai si sapeva che la Fenice sarebbe bruciata tutta. Ne parlammo anche con qualche veneziano, e non c'era alcun dubbio.
Il Teatro La Fenice era finito.
E se nelle leggende La Fenice risorge dalle ceneri, qui non poteva succedere. Quello che risorge è qualcos'altro. Sempre.
Entrato in appartamento, presi il programma annuale sul quale avevo meticolosamente segnato i concerti che volevo andare a vedere (ricordo un recital di Chopin con pianista Vladimir Ashkenazy) e lo stracciai, buttandolo nel cestino.
Intesi quel rogo come un segno: anche se i concerti li avrebbero fatti da un'altra parte (come accadde), non sarei dovuto andare a vederli.
In seguito passai spesso a vedere lo scheletro di quella antica e defunta maestosità, e i lavori di recupero cominciarono ad arenarsi per gli stessi stupidi motivi che l'avevano ridotta in cenere così che per i cinque anni che restai a Venezia l'unica cosa che vedei della Fenice fu un cantiere abbandonato, e una ragnatela enorme di ponteggi.
Tre anni dopo finii in un appartamento adiacente al Teatro.
La sera andavamo a bere nel Bar Alla Fenice, il bar ufficiale del teatro.
Era un magnifico bar con banconi in marmo, camerieri in livrea, vetrate, e uno dei pochi tabacchini interni a un bar che restavano aperti anche la notte. A Venezia non era facile trovare sigarette dopo la chiusura dei tabacchini, perché macchinette automatiche non ce n'erano.
Andavamo a bere lì perché era immediatamente sotto casa, ma anche perché era bello.
Il bar aveva subito lo stesso destino del teatro, ma in maniera metaforica.
Con la fine dei concerti la clientela "vip" era sparita, così avevano cominciato ad arrivarci solo gli ultimi.
La crescente immigrazione popolava sempre più Venezia di "vu cumprà" che avevano però ora ben più soldi di quel che si pensasse, e spesso venivano anche loro ad ubriacarsi lì, alla faccia di Allah, di Jahvé, di chi cazzo altro dio possiate immaginare.
I camerieri continuavano a vestirsi in livrea nonostante il cambio di clientela, ma mantenevano quella educazione mista a coglionaggine plebea del veneziano: così potevi sentirli parlare di Leoncavallo, Verdi, Wagner, e subito dopo di figa, puttane, sbronze e ti versavano la grappa bestemmiando e ridendo sguaiatamente. Magnifici.
Andavamo lì a prendere le sigarette perché al tabacchino c'erano una gran figa.
Poi poggiavamo il gomito al massiccio bancone di marmo, il piede sulla griglia d'ottone lucido, il pavimento di marmo un po' sporco faceva comunque il suo effetto, e ordinavamo tagli (ombre) e poi chiudevamo con una grappa.
Ricordo che, a seconda del cameriere, cambiava l'ordinazione del vino.
Con uno dovevi ordinare un'ombra nera altrimenti lui partiva "No te sarà miga un roso comunista!!!". Con l'altro dovevi ordinare un'ombra rossa perché altrimenti "No no no se ordina qua col nero i fassisti qua no ga d'entrar!!!".
Un giorno ero da solo, appoggiato al bancone, sempre in marmo, che costeggiava le vetrate che davano sul campiello.
Leggevo una rivista e bevevo il mio taglio, un po' sovrapensiero.
Dall'altra parte del vetro vidi una persona camminare, chiusa nel cappotto e con un cappello in testa, e la vidi fermarsi a leggere un cartello appeso sul vetro proprio di fronte a me.
Lo fissai.
Era Giuseppe Sinopoli, il grande direttore d'orchestra.
Lo fissai ad occhi sbarrati, era uno dei miei direttori preferiti, potente e preciso.
Alzò lo sguardo, mi vide, e tentennò leggermente il capo un po' a confermare il mio sospetto, un po' a dare un timido e cortese cenno di saluto, e se ne andò.
Non erano anni di selfie, di cellulari, non ho foto di quell'incendio terribile, di quel bar magnifico, di quel gran direttore che qualche anno dopo fu stroncato da un infarti sul palco.
Io avevo già concluso in maniera un po' triste quel magnifico periodo nella città più bella del mondo ma ne fui rattristato quasi fosse stata una persona che avevo conosciuto, un tempo.
Non ho foto di nulla.
Erano begli anni.


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